Da tamarro a recordman
e il tennis fosse un romanzo di Cervantes, una festa mobile fatta di duelli, adrenalina, sudore e arena, Rafael Nadal Parera (al cognome della madre tiene, e parecchio) sarebbe un hidalgo senza ronzino e con racchetta, gli occhi due punture di spillo, il gancio mancino come lancia in resta per farsi largo tra le spine di una classifica mondiale mai così attempata (la media dei top 10 oggi è 27,7 anni) e, dunque, permeabile. Chi crede che a trent’anni — li compirà il 3 giugno, Gemelli —, archiviato il malore di Miami («Ho avuto paura»), con nel motore il chilometraggio di un diesel che ha più volte percorso la circonferenza terrestre, Rafa Nadal sia ancora in grado di vincere un torneo del Grande Slam (all’attivo ne ha 14 nelle ultime undici stagioni di tennis) alzi la mano. « Bueno, io...!» ride lui realmente scandalizzato tra i fruscii di una telefonata intercontinentale nata per parlare degli abiti in tessuto elasticizzato di uno sponsor, Tommy Hilfiger, e finita giocando a immaginare una famiglia e una vita normale.
Uomo di pancia (finemente tartarugata) e sostanza, Rafa è quell’ufo che sulla terra rossa del Roland Garros ha conosciuto una sconfitta in due lustri, è l’oggetto del desiderio di un famoso video di Shakira («Gipsy»), è il cavaliere senza macchia e senza paura che ai mulini a vento preferisce gli Slam, convinto com’è di non essere ancora passato di moda. «Mi aspetto grandi cose dal 2016 — racconta —, l’obiettivo è divertirmi sul campo e vivere il tipo di vita che adoro, quella del tennista professionista. Finché mi piace fare ciò che faccio, vado avanti: che senso avrebbe fermarsi ora, nell’anno dei Giochi di Rio?». Dicono che Nadal sia logoro. Che le sue giunture di velluto, sballottate dagli urti di un’esistenza da globetrotter, ormai siano tenute insieme con i cerotti. Dicono che certe assenze per infortunio mascherino pratiche borderline: nell’epoca buia del meldonio dei russi e della Sharapova positiva al doping, per un’allusione nemmeno troppo velata l’ex ministra dello sport francese, Roselyn Bachelot, si è beccata una querela dal clan Nadal. «Che ognuno pensi ciò che vuole ma io sono stufo delle accuse infondate. Amo il tennis, amo allenarmi e sudare sul campo, amo cercare di migliorarmi giorno dopo giorno. Amo tutto ciò che faccio. Di certo non continuerò a prendere la palla a racchettate fino a quarant’anni però fino a quando sento dentro la motivazione, procedo. Quando avvertirò che il fuoco si sta spegnendo, ecco, quello sarà il momento di smettere».
Isolano puro, nato sul rosso di Manacor (Maiorca), trapiantato sulla rive gauche della Senna, nel verde del Bois de Boulogne, con qualche digressione atipica (il cemento dell’Us Open e l’erba di Wimbledon due volte, più il veloce di Melbourne), tra il primo (2005) e il nono (2014) titolo del Roland Garros — lo Slam con cui è entrato in simbiosi, ricambiato — Rafa ha compiuto la sua rivoluzione nadaliana, una circonvoluzione attorno a se stesso. Il 3 giugno 2005, quando nel giorno del suo 19esimo compleanno batte Roger Federer in semifinale a Parigi sulla rotta del trionfo contro Puerta, Rafa è un adolescente di buona famiglia, appartenente alla borghesia di Manacor, dove i Nadal posseggono