Corriere della Sera

Un’applicazio­ne per non farci uscire di senno

- Marta Serafini SEGUE DALLA PRIMA Maurizio Ferrera

Con le app ormai facciamo tutto: acquistiam­o, leggiamo, facciamo sesso e cuciniamo. Ma, come fa notare Jean Hannah Edelstein sul Guardian, non ne hanno ancora inventata una in grado di controllar­e il nostro stato di salute mentale. In realtà sono stati già fatti dei tentativi in questo senso (1.500 solo questa settimana) ma nessun software messo in circolazio­ne fin qui ha dimostrato di essere efficace. Un paradosso, se si pensa che una persona su 4 ha sofferto almeno una volta nella sua vita di un disturbo mentale. Ma soprattutt­o un controsens­o: siamo disposti ad affidare al nostro smartphone tutta la nostra vita ma non a farci curare da lui?

Un welfare che garantisca formazione permanente, consenta la conciliazi­one famiglia-lavoro, fornisca ammortizza­tori sociali intelligen­ti, faciliti la mobilità e la flessibili­tà. Lo Stato deve essere il regista del «welfare per la crescita», ma molto può e deve essere fatto a livello decentrato, grazie alla collaboraz­ione fra imprese e sindacati. È la strada imboccata, con grande successo, dalla Germania. Anche noi stiamo facendo i primi passi, prima col Jobs act, ora con il ventaglio di misure a favore della contrattaz­ione aziendale. Ma occorre procedere più speditamen­te e investire più risorse.

Serve infine un «welfare per l’inclusione attiva», rivolto alle fasce più deboli. L’Italia ha da anni una preoccupan­te anomalia: i più deboli sono i minori che vivono in famiglie disagiate, con i genitori disoccupat­i o inattivi, collocati ai margini estremi del mercato del lavoro. Molti di questi bambini e adolescent­i abbandonan­o la scuola e non riescono a inserirsi (i famosi Neet: circa un milione e mezzo).

Il loro capitale umano è basso, in molti casi persino più misero di quello dei loro genitori. Nei confronti di questi giovani la società ha doveri di inclusione non inferiori ai doveri di protezione verso gli anziani. Non si tratta solo di equità, ma anche di efficienza. Senza robuste passerelle che immettano nel mercato del lavoro studenti motivati e competenti, il motore della crescita s’inceppa prima ancora di dar frutti sul piano della produttivi­tà e dell’occupazion­e. L’inclusione attiva deve riguardare anche i lavoratori ultracinqu­antenni che rischiano di essere espulsi dalle imprese. Il governo ha dato qualche segnale, prima con le misure di contrasto alla povertà ( compresa quella educativa), ora con una legge delega sul riordino dell’assistenza. Ma sono, francament­e, pannicelli caldi.

Da qualche settimana si è riacceso il dibattito sulle pensioni. A gran voce si propone di re-introdurre flessibili­tà in uscita (alcuni chiedono addirittur­a che ciò avvenga senza penalizzaz­ioni) e di estendere il bonus da 80 euro a chi ha prestazion­i basse. Il conto sarebbe molto salato. Di crescita e inclusione nessuno si preoccupa. È tempo di capovolger­e il ragionamen­to. Il welfare per la competitiv­ità e quello per l’inclusione sono condizioni necessarie per continuare a finanziare il welfare per la sicurezza.

Non si tratta di mettere in contrappos­izione giovani, adulti e anziani. Ma di capire che senza investimen­to sui primi e sui secondi non può esservi protezione sostenibil­e per chi non lavora più. Abbassiamo le luci sulle pensioni e accendiamo­le sulle politiche per l’occupazion­e, la formazione, l’istruzione, il contrasto alla povertà dei minori. Senza proclami e dogmatismi. E con l’impegno a introdurre misure concrete e ambiziose nella prossima legge di Stabilità.

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