Un’applicazione per non farci uscire di senno
Con le app ormai facciamo tutto: acquistiamo, leggiamo, facciamo sesso e cuciniamo. Ma, come fa notare Jean Hannah Edelstein sul Guardian, non ne hanno ancora inventata una in grado di controllare il nostro stato di salute mentale. In realtà sono stati già fatti dei tentativi in questo senso (1.500 solo questa settimana) ma nessun software messo in circolazione fin qui ha dimostrato di essere efficace. Un paradosso, se si pensa che una persona su 4 ha sofferto almeno una volta nella sua vita di un disturbo mentale. Ma soprattutto un controsenso: siamo disposti ad affidare al nostro smartphone tutta la nostra vita ma non a farci curare da lui?
Un welfare che garantisca formazione permanente, consenta la conciliazione famiglia-lavoro, fornisca ammortizzatori sociali intelligenti, faciliti la mobilità e la flessibilità. Lo Stato deve essere il regista del «welfare per la crescita», ma molto può e deve essere fatto a livello decentrato, grazie alla collaborazione fra imprese e sindacati. È la strada imboccata, con grande successo, dalla Germania. Anche noi stiamo facendo i primi passi, prima col Jobs act, ora con il ventaglio di misure a favore della contrattazione aziendale. Ma occorre procedere più speditamente e investire più risorse.
Serve infine un «welfare per l’inclusione attiva», rivolto alle fasce più deboli. L’Italia ha da anni una preoccupante anomalia: i più deboli sono i minori che vivono in famiglie disagiate, con i genitori disoccupati o inattivi, collocati ai margini estremi del mercato del lavoro. Molti di questi bambini e adolescenti abbandonano la scuola e non riescono a inserirsi (i famosi Neet: circa un milione e mezzo).
Il loro capitale umano è basso, in molti casi persino più misero di quello dei loro genitori. Nei confronti di questi giovani la società ha doveri di inclusione non inferiori ai doveri di protezione verso gli anziani. Non si tratta solo di equità, ma anche di efficienza. Senza robuste passerelle che immettano nel mercato del lavoro studenti motivati e competenti, il motore della crescita s’inceppa prima ancora di dar frutti sul piano della produttività e dell’occupazione. L’inclusione attiva deve riguardare anche i lavoratori ultracinquantenni che rischiano di essere espulsi dalle imprese. Il governo ha dato qualche segnale, prima con le misure di contrasto alla povertà ( compresa quella educativa), ora con una legge delega sul riordino dell’assistenza. Ma sono, francamente, pannicelli caldi.
Da qualche settimana si è riacceso il dibattito sulle pensioni. A gran voce si propone di re-introdurre flessibilità in uscita (alcuni chiedono addirittura che ciò avvenga senza penalizzazioni) e di estendere il bonus da 80 euro a chi ha prestazioni basse. Il conto sarebbe molto salato. Di crescita e inclusione nessuno si preoccupa. È tempo di capovolgere il ragionamento. Il welfare per la competitività e quello per l’inclusione sono condizioni necessarie per continuare a finanziare il welfare per la sicurezza.
Non si tratta di mettere in contrapposizione giovani, adulti e anziani. Ma di capire che senza investimento sui primi e sui secondi non può esservi protezione sostenibile per chi non lavora più. Abbassiamo le luci sulle pensioni e accendiamole sulle politiche per l’occupazione, la formazione, l’istruzione, il contrasto alla povertà dei minori. Senza proclami e dogmatismi. E con l’impegno a introdurre misure concrete e ambiziose nella prossima legge di Stabilità.