Design e vino, il capitalismo «leggero» ci tiene a galla
La modernità di design e vino: una ferrea organizzazione dove contano le persone
Il calendario fieristico di primavera unisce strettamente il Vinitaly di Verona e il Salone del Mobile di Milano e quest’abbinata riesce da anni a generare una sana e contagiosa euforia per i successi del made in Italy. È la rivincita di un capitalismo che potremmo definire leggero non solo perché non riguarda l’industria fordista del Novecento né l’alta tecnologia ma perché è una forma di iniziativa nella quale ancor più dei capitali contano le persone. In fondo non c’è niente di più vicino all’individualismo imprenditoriale della produzione del vino.
Anche la forza del design è indissolubilmente legata ad alcune figure iconiche di designer e di imprenditori. Un capitalismo che tutti ci invidiano perché è nell’onda della modernità e al tempo stesso si basa su una ferrea organizzazione. La parola chiave è filiera e vuol dire che la fabbrica tradizionale si è trasformata nel tempo in una rete in cui viene esaltato il contributo di singole persone, della fornitura, dell’ideazione e del brand. Niente è casuale in questa imprenditoria glamour: tutto è intelligenza, programmazione, concorrenza feroce. Guai a considerarlo un capitalismo degli aperitivi perché in realtà riesce a veicolare una domanda di senso: vino e design non risolveranno i grandi dilemmi di un Occidente che deve far fronte al Bataclan e a Molenbeek ma ci fanno sentire una comunità che ha ancora molto da dire e non ha rinunciato a includere. Un soft power con la capacità di conservare un retroterra fatto di terra, contadini e sudore (il vino) e di artigiani, bulloni e ancora sudore (l’arredo).
È chiaro che questo capitalismo leggero non può risolvere da solo tutti i problemi di un Paese che cresce alla velocità dello zero virgola, è un format che non aumenta d’un colpo la capitalizzazione di Borsa e non darà contributi straordinari in termini di occupazione crescente però serve anche a dimostrare che ci stanno a fare gli italiani nel mondo. Conosco perfettamente la doppia obiezione che a questi discorsi viene avanzata di solito. La prima si nutre della nostalgia del grande secolo manifatturiero, dell’Italia del triangolo industriale, dei capitani di industria delle fiction Rai. Per tanti errori che abbiamo commesso ma anche per le conseguenze della globalizzazione ci sono rimaste poche grandi imprese, il ritmo delle acquisizioni estere è serrato e forse lo sarà ancora di più negli anni a venire. Non è colpa però di Vinitaly e del Salone del Mobile se in più di un settore tedeschi e francesi sono stati più bravi di noi, se i cinesi ci appaiono un competitore temibilissimo e se noi italiani non siamo riusciti a creare una nostra tradizione di qualità nei servizi. E comunque applaudire il design non vuol dire che dobbiamo smantellare l’Ilva. Salviamola anzi, che di tempo ne abbiamo perso anche troppo.
L’altra obiezione riguarda i ritardi del nostro sistema nelle grandi sfide tecnologiche. Allegata al Def, il documento economico finanziario approvato dall’ultimo consiglio dei ministri, c’è una tabella (tremenda) che certifica i nostri ritardi nella spesa per la ricerca/sviluppo e più in generale per migliorare il capitale umano. I tedeschi sono riusciti ad affermare come fosse un loro brand la nuova manifattura a 4.0 e noi arranchiamo, non n sappiamo quale sarà il vero o consuntivo del vivace movimento - delle start up però sappiamo - che le nostre università varano pochissimi spin off di professori/studenti. Ma dii tutto ciò non se ne può fare un
oo- colpa al capitalismo leggero che invece assegna un’attenzione maniacale alla qualità e alla formazione perché sa che e il giudizio del mercato, come e il famoso diavolo, si nasconde e nei dettagli.
Se quanto detto ha un riscontro - nella realtà non dobbiamo dividerci - come pure accade - nell’assegnare un voto al vino e al design bensì occorre - far di tutto per riprodurre il vantaggio competitivo di cui godiamo e che non è eterno. Prendiamo la grande novità - dell’e-commerce che crescee a ritmi travolgenti e nel quale e rischiamo di fare la figura di Cenerentola, vuoi perché le Sinuoso Lo sgabello Maximo di Sawaya & Moroni nostreno imprese non si sono ancoraa alfabetizzate vuoi perchép (tranne l’eccezione di Yoox) le piattaforme digitali sono per lo più americane. Matteo Renzi a Verona ha battezzato l’alleanza con il colossoco cinese Alibaba mostrando str coraggio e prendendosi do qualche rischio perché gli asiatici non coltivano la difesa fes della proprietà intellettuale tua come principio inderogabile gab dell’attività commerciale cia ma buttiamo pure il cuore re oltre l’ostacolo. E con la stessaste logica diamo al capitalismo sm leggero i binari necessari perpe affermarsi nel mondo. PerchéPer non trasformiamo Vinitaly nit in una grande piattaforma ma commerciale internazionale? na E perché continuiamo ad alimentare dispute campanilistiche nil tra le fiere del cibo di Milano e Parma? Piccoli interrogativi, ter si dirà, ma una grandegra ambizione richiede comportamenticom coerenti.
Questo soft power non darà contributi notevoli in termini di impiego però serve a dimostrare che cosa ci stanno a fare gli italiani nel mondo