Corriere della Sera

Design e vino, il capitalism­o «leggero» ci tiene a galla

La modernità di design e vino: una ferrea organizzaz­ione dove contano le persone

- Di Dario Di Vico

Il calendario fieristico di primavera unisce strettamen­te il Vinitaly di Verona e il Salone del Mobile di Milano e quest’abbinata riesce da anni a generare una sana e contagiosa euforia per i successi del made in Italy. È la rivincita di un capitalism­o che potremmo definire leggero non solo perché non riguarda l’industria fordista del Novecento né l’alta tecnologia ma perché è una forma di iniziativa nella quale ancor più dei capitali contano le persone. In fondo non c’è niente di più vicino all’individual­ismo imprendito­riale della produzione del vino.

Anche la forza del design è indissolub­ilmente legata ad alcune figure iconiche di designer e di imprendito­ri. Un capitalism­o che tutti ci invidiano perché è nell’onda della modernità e al tempo stesso si basa su una ferrea organizzaz­ione. La parola chiave è filiera e vuol dire che la fabbrica tradiziona­le si è trasformat­a nel tempo in una rete in cui viene esaltato il contributo di singole persone, della fornitura, dell’ideazione e del brand. Niente è casuale in questa imprendito­ria glamour: tutto è intelligen­za, programmaz­ione, concorrenz­a feroce. Guai a considerar­lo un capitalism­o degli aperitivi perché in realtà riesce a veicolare una domanda di senso: vino e design non risolveran­no i grandi dilemmi di un Occidente che deve far fronte al Bataclan e a Molenbeek ma ci fanno sentire una comunità che ha ancora molto da dire e non ha rinunciato a includere. Un soft power con la capacità di conservare un retroterra fatto di terra, contadini e sudore (il vino) e di artigiani, bulloni e ancora sudore (l’arredo).

È chiaro che questo capitalism­o leggero non può risolvere da solo tutti i problemi di un Paese che cresce alla velocità dello zero virgola, è un format che non aumenta d’un colpo la capitalizz­azione di Borsa e non darà contributi straordina­ri in termini di occupazion­e crescente però serve anche a dimostrare che ci stanno a fare gli italiani nel mondo. Conosco perfettame­nte la doppia obiezione che a questi discorsi viene avanzata di solito. La prima si nutre della nostalgia del grande secolo manifattur­iero, dell’Italia del triangolo industrial­e, dei capitani di industria delle fiction Rai. Per tanti errori che abbiamo commesso ma anche per le conseguenz­e della globalizza­zione ci sono rimaste poche grandi imprese, il ritmo delle acquisizio­ni estere è serrato e forse lo sarà ancora di più negli anni a venire. Non è colpa però di Vinitaly e del Salone del Mobile se in più di un settore tedeschi e francesi sono stati più bravi di noi, se i cinesi ci appaiono un competitor­e temibiliss­imo e se noi italiani non siamo riusciti a creare una nostra tradizione di qualità nei servizi. E comunque applaudire il design non vuol dire che dobbiamo smantellar­e l’Ilva. Salviamola anzi, che di tempo ne abbiamo perso anche troppo.

L’altra obiezione riguarda i ritardi del nostro sistema nelle grandi sfide tecnologic­he. Allegata al Def, il documento economico finanziari­o approvato dall’ultimo consiglio dei ministri, c’è una tabella (tremenda) che certifica i nostri ritardi nella spesa per la ricerca/sviluppo e più in generale per migliorare il capitale umano. I tedeschi sono riusciti ad affermare come fosse un loro brand la nuova manifattur­a a 4.0 e noi arranchiam­o, non n sappiamo quale sarà il vero o consuntivo del vivace movimento - delle start up però sappiamo - che le nostre università varano pochissimi spin off di professori/studenti. Ma dii tutto ciò non se ne può fare un

oo- colpa al capitalism­o leggero che invece assegna un’attenzione maniacale alla qualità e alla formazione perché sa che e il giudizio del mercato, come e il famoso diavolo, si nasconde e nei dettagli.

Se quanto detto ha un riscontro - nella realtà non dobbiamo dividerci - come pure accade - nell’assegnare un voto al vino e al design bensì occorre - far di tutto per riprodurre il vantaggio competitiv­o di cui godiamo e che non è eterno. Prendiamo la grande novità - dell’e-commerce che crescee a ritmi travolgent­i e nel quale e rischiamo di fare la figura di Cenerentol­a, vuoi perché le Sinuoso Lo sgabello Maximo di Sawaya & Moroni nostreno imprese non si sono ancoraa alfabetizz­ate vuoi perchép (tranne l’eccezione di Yoox) le piattaform­e digitali sono per lo più americane. Matteo Renzi a Verona ha battezzato l’alleanza con il colossoco cinese Alibaba mostrando str coraggio e prendendos­i do qualche rischio perché gli asiatici non coltivano la difesa fes della proprietà intellettu­ale tua come principio inderogabi­le gab dell’attività commercial­e cia ma buttiamo pure il cuore re oltre l’ostacolo. E con la stessaste logica diamo al capitalism­o sm leggero i binari necessari perpe affermarsi nel mondo. PerchéPer non trasformia­mo Vinitaly nit in una grande piattaform­a ma commercial­e internazio­nale? na E perché continuiam­o ad alimentare dispute campanilis­tiche nil tra le fiere del cibo di Milano e Parma? Piccoli interrogat­ivi, ter si dirà, ma una grandegra ambizione richiede comportame­nticom coerenti.

Questo soft power non darà contributi notevoli in termini di impiego però serve a dimostrare che cosa ci stanno a fare gli italiani nel mondo

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