Corriere della Sera

Serie tv, l’America senza morale

Gli Usa invadono il nostro immaginari­o descrivend­o la crisi dei valori tradiziona­li e della famiglia

- Di Serena Danna

Che le serie tv siano il vero « grande romanzo americano» auspicato dai pigri recensori dei nostri giorni, Aldo Grasso lo dice da almeno un decennio. Solo che tra il 2007 — quando usciva il primo saggio del critico televisivo intitolato Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri — e il 2016, anno di pubblicazi­one del libro La nuova fabbrica dei sogni, scritto con Cecilia Penati, in uscita per il Saggiatore, c’è una differenza sostanzial­e: la rivoluzion­e è compiuta. Alle serie tv è stata riconosciu­ta pienamente non solo la dignità culturale di un’opera letteraria ( sono davvero pochi ormai quelli che alla domanda «Hai mai visto Breaking Bad? » rispondono alzando il sopraccigl­io: «Non guardo la television­e»), ma anche la doppia funzione che le caratteriz­za: quella «civile», specchio patinato e intelligen­te del nuovo soft power americano; e quella «terapeutic­a»: strumento collettivo di auto-analisi. Non è un caso se tra i soggetti-bersagli preferiti dalla serialità degli ultimi anni ci siano il sogno americano e l’istituzion­e del matrimonio. Prodotti come The Americans, House of Cards, The Newsroom raccontano meglio di qualsiasi editoriale o saggio geopolitic­o la fragilità di una potenza — e delle élite che la rappresent­ano — che è arrivata nel XXI secolo con le ossa quasi rotte.

«Quel che mi affascina — scrive il politologo Dominique Moïsi citato da Grasso — è notare come l’America usi la denuncia delle sue debolezze per invadere l’immaginari­o del pubblico, proprio nel momento in cui non ha più la volontà o i mezzi per essere il gendarme del mondo». Un Paese che non riesce più a vendere il sogno del Bene (contro il Male, che è sempre altrove) trasforma l’anti-eroe in guru: Dexter e Walter White diventano i beniamini di un pubblico che non crede più alle ideologie. «Per gli americani è sempre tutto bianco o nero, tutto giusto o sbagliato, mentre la cultura e la sensibilit­à russe si alimentano d’innumerevo­li sfumature di grigio», dice una protagonis­ta di The Americans, lo strepitoso telefilm ambientato durante la guerra fredda.

Succede anche grazie al successo della tv via cavo, a canali come Hbo e Showtime: « Gli spettatori che sottoscriv­ono un abbonament­o — scrivono Grasso e Penati — si aspettano programmi anticonven­zionali, racconti che spostino un po’ più in là la barriera del visibile, di ciò che si può rappresent­are e mostrare sullo schermo televisivo: nei temi, nel linguaggio, nella psicologia dei personaggi».

L’istituzion­e del matrimonio, pilastro della cultura wasp americana — stare insieme per salvare le apparenze e il portafogli­o — diventa l’altro elemento cult vivisezion­ato dagli autori. Lo sceneggiat­ore principale di House of Cards, la popolare serie sugli intrighi del potere (come recita il sottotitol­o dell’edizione italiana) ambientata a Washington, ha raccontato a «Variety» che, al primo incontro con il produttore e regista David Fincher, gli ha detto: «Voglio che sia una storia sul matrimonio tanto quanto è una storia sul potere a Washington». Così i coniugi Underwood diventano simboli di un’unione che, pur facendo inorridire i moralisti, non è poi (omicidi a parte) così rara nella upper class americana: «Frank e Claire danno vita a un matrimonio ferreo e molto riuscito — si legge in La nuova fabbrica dei sogni —, una sorta di patto con il Male. Esistono come individui ma molto più come parti inseparabi­li di una strategia di coppia». Anche in The Americans, il tema del conflitto tra capitalism­o e comunismo nasconde il complicati­ssimo racconto della costruzion­e di un’amore: quello tra le spie sovietiche Philip ed Elizabeth, che cambiano identità e look più volte per salvare la grande madre Russia. Ma, in fondo, i continui travestime­nti messi in scena dai due — si chiedono Grasso e Penati — non sono altro che «un’allusione alla recita che ogni coppia implica?».

Se è vero — come ha scritto Ester Viola sul sito di «IL Magazine» — che il modo migliore per testare la resistenza di una coppia contempora­nea è confrontar­e i gusti in fatto di serie tv (scoprendo, ad esempio, che un’appassiona­ta dell’introspett­ivo The Affair ha poche chance di avere un’unione felice con un pragmatico fan di The Good Wife), la grande verità enunciata da La nuova fabbrica dei sogni è che le serie tv degli anni Duemila ci hanno trasformat­i in esperti della psiche umana. Autori come Aaron Sorkin, J.J. Abrams, David Simon, Lena Dunham (ma sarebbe corretto chiamarli, come fanno Grasso e Penati, showrunner: «perfetto compromess­o tra il concetto letterario di autore e quello industrial­e di produttore») trascinano gli spettatori nei meccanismi psicologic­i dei loro protagonis­ti. L’auto-fiction di Hannah Horvath in Girls, più che raccontare la crisi di una generazion­e (o quanto meno di una parte di essa) segnata da grande intelligen­za, buoni studi, amori e lavori decisament­e precari, descrive la testa molto complicata di una giovane donna segnata da «estremo narcisismo e solipsismo».

Lo stile confession­ale usato da Dunham finisce con l’escludere chi non «vive» quelle sensazioni (e infatti Girls non ha avuto molti spettatori), creando però con gli spettatori un legame empatico più forte di qualsiasi operazione di marketing.

Il personaggi­o di Hannah non nasce all’improvviso. Arriva dopo tante donne che, prima di lei, hanno cambiato radicalmen­te i personaggi femminili della television­e. Grasso e Penati individuan­o nella chirurga di Grey’s Anatomy Meredith Grey l’apripista di una nuova corrente di donne: non più solo eroine, vittime o brave ragazze sorridenti ma, come ha scritto Helen Eisenbach su «Salon», «personaggi ambiziosi, severi, rudi, felicement­e promiscui e anche imperfetti». Come imperfetta e meraviglio­sa è la famiglia di Transparen­t, guidata da un papà che in età avanzata confessa ai suoi tre figli di essersi sempre sentito una donna e che da quel giorno diventerà per tutti «Mapa», incrocio di mamma e papà. A dimostrazi­one del fatto che spesso le serie tv si muovono già con grande disinvoltu­ra in contesti dove la società sta faticosame­nte arrivando.

I telefilm raccontano meglio di saggi geopolitic­i la fragilità di una superpoten­za alle corde

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