Anteprima Emancipazione di una crocerossina La Caporetto di un amore impossibile
Vista con gli occhi di una giovane crocerossina scaraventata dalla Napoli bene in un ospedale da campo vicino al Carso, la Prima guerra mondiale non era poi molto differente dall’«inutile strage» denunciata a suo tempo da Papa Benedetto XV. Un’immane macelleria, ecco cos’era. Un luogo dell’orrore dove sembra impossibile che potessero fiorire sentimenti delicati, trasalimenti amorosi, sguardi e carezze di calda intensità. Quale passione poteva esplodere in quel grumo di sangue e fango, nel fetore della morte, nel «disgusto della bocca che vomita il cervello», tra piaghe, petti squarciati, arti amputati, ferite infette, «pelle accartocciata dalle ustioni», «gli insopportabili gorgoglii nella gola dei moribondi», e poi nel terrore della notte o gelida o bollente, infestata da mosche e zanzare, nel silenzio rotto dai lamenti, dai gemiti, dai rantoli di chi sta conoscendo i suoi ultimi, atroci momenti, oppure dagli scoppi delle cannonate, dai vetri che vanno in frantumi giusto il tempo di un boato, dalle granate sempre più vicine? Impossibile.
Eppure nel nuovo romanzo di Elisabetta Rasy, Le regole del fuoco (Rizzoli), l’impossibile accade. Una storia tenera ma anche segnata dal dolore e dalla gelosia, un sussulto di emozioni, «un sospiro sottile nel buio», ma anche un legame che spezza i ritmi di quell’inferno in trincea, sboccia con un’intensità commovente. Destinata allo scacco. Eppure custodita negli anni a venire, nei tanti anni a venire, come l’esperienza più importante della vita, cui restare fedele per sempre, come il riconoscimento di un evento eccezionale e perciò irripetibile.
In una nota che conclude il libro Elisabetta Rasy scrive: «Questa storia è stata ispirata da antichi ricordi ma anche dalla lettura di molti diari delle infermiere volontarie della Grande Guerra. Attraverso le loro voci mi sono documentata sulla vita, le difficoltà e lo speciale coraggio di queste donne in guerra. A loro va il mio pensiero riconoscente». E infatti: c’è molta storia, storia vissuta e subita, in queste pagine, la statica vicinanza alla morte delle trincee, i ripiegamenti, la rotta di Caporetto, le nuove armi che alimentarono la carneficina fino ad assumere dimensioni apocalittiche mai toccate nelle guerre precedenti. E poi la psicologia dell’esercito italiano, lo stato della medicina e delle cure da portare ai feriti, la spaventosa epidemia della «spagnola» che finì per mietere milioni di vittime.
Ma c’è anche una perlustrazione precisa e narrativamente incalzante delle emozioni di una donna che dal chiuso asfittico della classe agiata napoletana
La ricostruzione di un ospedale da campo nella mostra La Guardia di Finanza nella Grande Guerra (Venezia, Palazzo Ducale, 2015)
dei primi decenni del Novecento, fatto di vuoto e di futilità, si catapulta come fosse un’elettrizzante avventura nelle retrovie della guerra per sfuggire alla noia e alle smanie dispotiche di una madre vedova indolente.
C’è questa giovane ragazza di Napoli che lascia il mare e la forma familiare del Vesuvio per andare lungo fiumi sconosciuti, montagne dal profilo frastagliato e il suo amore che vive sul lago e non conosce la differenza tra un lago e il mache La giovane napoletana e la ragazza del lago: una storia tenera destinata allo scacco
re. Che lascia sempre almeno una ciocca di capelli biondi leziosamente fuori della cuffia candida da crocerossina mentre va a bendare feriti sventrati e mutilati. Ci sono le donne che nella Prima guerra mondiale conoscono per la prima volta il lavoro fuori della schiavitù domestica e riempiono fabbriche, officine, uffici, ospedali. C’è la ragazza del lago che, addirittura alla fine degli anni Dieci del XX secolo, si permette di voler studiare Medicina e tutti che le dicono Antichi ricordi ma anche i molti diari delle infermiere che partivano volontarie
sta coltivando un sogno velleitario. E c’è la protagonista che per emanciparsi deve scappare via. Tagliare i ponti e tagliarsi i capelli, vestire in modo eccentrico, andare a Parigi dove si respira un’aria più libera e frizzante, lontana dai miasmi fetidi degli ospedali da campo e da quella ammuffita e gretta dei riti di una famiglia insopportabilmente asfissiante. Portare con sé un apparecchio fotografico della Kodak e diventare una grande fotografa, nel ricordo di un’istantanea fatta all’amore dell’ospedale e mai più ritrovata. Nel ricordo di una fuga precipitosa, la fuga da Caporetto (la «mia Caporetto», come la definisce la protagonista), nel ricordo di una persona smarrita, la più importante persona della vita, una donna, un’altra donna. Raccontata con estrema delicatezza e molto tatto, dall’autrice Rasy.
E poi lettere d’amore dissimulate per evitare le intrusioni della censura militare e i pettegolezzi delle altre crocerossine insospettite da scambi epistolari così frequenti. I messaggi di passione cifrati, filtrati attraverso i testi delle canzoni napoletane che la ragazza del mare invia alla ragazza del lago, nascoste da un pudico e formale «Lei» per cancellare il troppo intimo «Tu». Canzoni che Elisabetta Rasy ha ascoltato, sussurrato e canticchiato chissà quante volte nella sua infanzia e nella sua adolescenza e che in questo romanzo vengono restituite come testimonianze di un lessico dei sentimenti intenso e inedito, frammenti di un discorso amoroso che parla con un linguaggio pubblico alle emozioni più private e riservate. Dove nulla è facile. Anzi, tutto è impossibile e contrastato, destinato a tutt’altro che a un lieto fine, una Caporetto da cui è difficile fuggire. La «sua» Caporetto.