Corriere della Sera

GIACOMETTI TORNA A CASA: OPERE E FOTO

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Anche se viveva a Parigi, Alberto Giacometti (1901-1966) tornava spesso in val Bregaglia, nel Cantone dei Grigioni. Rivedere le Alpi, i passi di Settimo, l’Engadina, la Valtellina, le montagne dello Sciora, dell’Albigna e del Forno, i villaggi di Stampa (dov’era nato), Maloja, Casaccia, Borgonovo (dov’è sepolto nel cimitero di San Giorgio), il fiume Mera che sfocia nel lago di Como.

Così, per i cinquant’anni dalla morte dell’artista, sin da gennaio, la val Bregaglia ha programmat­o una serie di eventi per ricordare il figlio più illustre: spettacoli teatrali, recital di testi (di e sullo scultore); Camminare con Giacometti (da Coltura a San Giorgio). Dal 5 giugno mostre all’Atelier Giacometti e al Museo Ciäsa Granda di Stampa, con lavori inediti, a cura di Beat Stutzer.

Sugli ultimi soggiorni dell’artista nei luoghi dell’infanzia ci sono decine di fotografie. Per l’occasione, 44 sono state raccolte in volume da Marco Giacometti e Claudia Demel: Non capisco né la vita né la morte (Salm Verlag, pp. 56,

30). Fanno da pendant a quelle di Ernst Scheidegge­r — esposte al Museo cittadino — che ritraggono l’artista svizzero nel suo atelier parigino, al tempo di Paris sans fin (150 lastre ultimate nel 1962, anno del Gran Premio per la Scultura alla Biennale di Venezia).

Aimé Maeght era il gallerista di Alberto Giacometti; così come Kahnweiler lo era di Picasso. Gallerista e amico. Quando il figlio di Maeght, Adrien, si sposa, l’artista svizzero presenzia al matrimonio, assieme ad altri pittori, scultori e letterati. Fra quest’ultimi, il poeta Pierre Reverdy. Per alcuni, la serata si chiude da Chez Dupont, in Place des Ternes. Dopo alcuni bicchieri di troppo, Giacometti e Reverdy discutono con veemenza sino a venire alle mani e il padrone del locale chiama la polizia. Tutti in commissari­ato, sino alle due del mattino. Reverdy, ricorda Maeght, ha un carattere piuttosto bellicoso: una volta, durante un diverbio, ha persino sparato a Maurice Utrillo, che, a Montmartre, abitava sopra di lui.

Le incisioni di Paris sans fin usciranno raccolte in un cartella omonima da Tériade nel ’69. I soggetti? Strade coi negozi, chiese coi grandi orologi incastrati nei campanili, ponti seminascos­ti dagli alberi, atelier con modelle in posa, entraîneus­e fasciate dal fumo delle sigarette, tavolini di ristoranti con sedie di ferro battuto, donne coi seni frullati dal vento: immagini di una Parigi vorticosa, dolcissima e drammatica, romantica e bohemienne, opulenta e povera, viva e agonizzant­e. Nonostante le proprie contraddiz­ioni, la città non grida. I personaggi filiformi vivono, respirano con la città. Il segno ha una grande forza narrativa e poetica. Giacometti insegue la vita e, come uno schermidor­e di classe, incide il foglio a colpi di fioretto (un po’ come, per altri versi, faceva il marchese Filippo de Pisis).

Lo scultore svizzero pensa che l’opera d’arte sia legata alla vita. Ecco perché la considera una sorta di «doppio» della realtà. Per percepirla, guarda all’arte primitiva ed egizia, africana, oceanica, cicladica e sumera (più o meno come Brancusi, Picasso, Laurens, Lipchitz) e mira anche all’efficacia della scena. Sempre alla ricerca di legami fra la sua opera e il mondo, quando non riesce a trovarli, li inventa. Da qui il senso della metafora insita in tutta la sua produzione e la semplicità dei suoi personaggi scolpiti, dipinti e disegnati; personaggi simili alla sua vita, «un fragile palazzo, costruito e sempre ricostruit­o, coi fiammiferi». Alla fine, «l’età delle cose non aveva per Giacometti un’età reale, era sempre in disfacimen­to. Anticipava quello che il tempo avrebbe provocato su oggetti e persone». Parola di Giorgio Soavi.

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Giacometti (Fotogramma)

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