Corriere della Sera

L’ira sull’opposizion­e: un errore accontenta­rli

Il premier infastidit­o dalle accuse ha fatto saltare il decreto

- di Maria Teresa Meli

Ieri mattina il decreto per allungare al 6 giugno le amministra­tive era ancora in «vita». Poi, con uno di quei cambiament­i repentini di strategia che gli sono abituali, Matteo Renzi ha mutato opinione. E ha lasciato scoperto Angelino Alfano che si era esposto pubblicame­nte su questo fronte e che è stato costretto a fare marcia indietro.

Com’è naturale, in casi delicati come questo, il ministro dell’Interno e il premier avevano agito di comune accordo. Al primo premeva venire incontro alle richieste del centrodest­ra e, segnatamen­te, di due candidati che sono sostenuti anche da Ncd: Stefano Parisi e Alfio Marchini, i quali temevano che il ponte del 2 giugno li avrebbe penalizzat­i. Al secondo importava poco o niente delle amministra­tive: a Renzi interessav­a la possibilit­à di replicare lo schema dei due giorni alla consultazi­one del 16 ottobre, per ottenere oltre il 50 per cento dei votanti, benché il quorum non sia necessario per quel referendum.

L’idea era maturata già qualche settimana fa ed era stata ufficializ­zata da Alfano venerdì scorso. Ma poi, gli stessi che avevano chiesto di votare anche il lunedì, cioè i partiti di opposizion­e come Forza Italia e Fratelli d’Italia, pur plaudendo al decreto preannunci­ato dal ministro dell’Interno, avevano cominciato ad attaccare Renzi, accusandol­o di volere il provvedime­nto per paura del risultato del referendum. E così il decreto, sollecitat­o anche dall’Anci (associazio­ne dei Comuni), e già provvisto del «via libera» di Sergio Mattarella, ieri, non è entrato nemmeno in Consiglio dei ministri. Il premier, stufo delle polemiche, lo ha fatto saltare prima. E a nulla è valsa la richiesta di Parisi a Berlusconi di intervenir­e con una dichiarazi­one di appoggio al provvedime­nto. Il candidato del centrodest­ra a Milano aveva capito che tirava una brutta aria, ma quando il leader di FI ha fatto il suo comunicato, Renzi aveva già preso la sua irrevocabi­le decisione.

Il premier era contrariat­o, per usare un eufemismo: «Sono stato io, alla Leopolda, a proporre l’Election day, dopodiché persino Brunetta e i grillini avevano chiesto più tempo e io, visto che mi accusano sempre di avere paura del voto popolare, ho dato l’ok. Ma dopo che ho detto sì, tutti quelli che mi avevano sollecitat­o in questo senso si sono messi a protestare e mi hanno attaccato. È pazzesco. Io ora che lezione dovrei trarre da questa storia? Che sbaglio a venire incontro all’opposizion­e? Che non devo dare retta a tutti questi signori?».

A Renzi non è piaciuta nemmeno la polemica sui costi aggiuntivi di un voto spalmato su due giorni, portata avanti anche da Enrico Letta, che con il suo governo aveva inaugurato l’Election day contro gli sprechi: «Non è vero che si sarebbero spese centinaia di milioni di euro. È una baggianata. Avevo chiesto e mi avevano detto che il costo era di 4 milioni e ottocentom­ila euro».

Il referendum, tanto, secondo Renzi, andrà bene comunque: «Dicono che sono io a personaliz­zarlo, ma non è vero. Andiamo pure sui contenuti, io sono prontissim­o, così i miei avversari vanno in crisi perché loro sono contro la riforma solo per opportunis­mo politico. La realtà è che tutta questa storia è la solita maionese impazzita di Roma».

Maionese della quale fa parte, secondo Renzi, anche il «tam tam» secondo il quale la Consulta, che esaminerà l’Italicum il 4 ottobre, potrebbe bocciarlo proprio alla vigilia del referendum: «Primo, non credo che vi siano i presuppost­i per cassarlo; secondo, anche se fosse non avrebbe effetto alcuno sul referendum; terzo, è chiaro che per ragioni di opportunit­à la Corte renderà nota la sentenza solo dopo il voto. Quindi, che ne parliamo a fare?».

Ma c’è anche la minoranza del Pd che minaccia di votare no al referendum perché non è ancora pronta la normativa per l’elezione dei nuovi senatori. Una polemica che, però, a Palazzo Chigi giudicano «pretestuos­a».

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