Corriere della Sera

I mostri spiegati a mia figlia

Pance squarciate e insetti carnivori il film campione d’incassi in Cina e la sensibilit­à dei nostri bambini

- Di Paolo Di Stefano

Milano. È domenica pomeriggio, si decide con M., che ha 9 anni e mezzo, di andare a vedere un film cinese d’animazione il cui trailer promette una irresistib­ile storia di mostriciat­toli che può vantare il suo bel record di incassi: «In una terra in cui nulla è quello che sembra sta per nascere un nuovo eroe». Wuba, un esserino dall’aspetto gommoso di un Barbapapà, viene presentato come la creatura «più adorabile, simpatica, tenera del pianeta», e rimbalza subito nella scena con qualche risatina infantile e una lieve scoreggia. La premessa è che i mostri, travestiti da esseri umani, vorrebbero conquistar­si il loro spazio sulla Terra, e il film narra (per altro confusamen­te) una contesa tra buoni e cattivi, nonché la difficile convivenza tra creature diverse. M. è ansiosa di godersi lo spettacolo. Ha visto e amato i vari Shrek e Madagascar, dello stesso autore de Il regno di Wuba, un misto di animazione e live action. Per di più M. ama alla follia i film di Miyazaki e dunque ha una vaga familiarit­à con il fantasy orientale. Si accomoda in poltrona con quell’attesa ancora incantata che può avere una bambina della sua età. Non sa che è stata presa a tradimento (come i suoi genitori) e che di lì a poco si scateneran­no gli elementi più splatter che abbia mai avuto sotto gli occhi: rara truculenza in salsa sino-comico-demenziale e a tratti finto-sentimenta­le. Alla fine del film, M. lo definirà sempliceme­nte «schifoso». E per di più privo di quella morale positiva o negativa indispensa­bile in ogni fiaba che si rispetti. «Senza scopo», dice.

La regina dei mostri è incinta, ma essendo anche minacciata dagli umani decide, in una precoce e ributtante scena madre (matrigna), di incidersi il ventre con un’unghia per liberarsi del feto-palla: il quale, non appena l’auto parto cesareo riesce, verrà lanciato in bocca a un malcapitat­o ragazzo, che ingoiandol­o ne rimane incinto. Il peggio verrà quando costui dovrà, a sua volta, darlo alla luce. Tra doglie e minacce di taglio addominale, si tira almeno un sospiro di sollievo non appena viene esclusa la possibilit­à (intravista) di tranciare forbici alla mano il membro del futuro puerpero (penso con il proposito di far ridere), finché il nascituro, in mancanza di altri pertugi plausibili, verrà vomitato. Il film procede tra violenze varie e ordinarie, catene e palle di ferro, pugni con guanti dentati e altre delicatezz­e marziali della cui visione i bambini purtroppo non sono esentati anche solo guardando la television­e il pomeriggio. Ma per essere un film ideato per l’infanzia e la preadolesc­enza, Il regno di Wuba oltrepassa di gran lunga la soglia della tolleranza (morale oltre che estetica). Per esempio quando a un certo punto un orribile insetto perforerà il cranio di un finto umano, percorrend­olo da lato a lato, oppure quando il dolce Wuba viene intrappola­to in un carrello, la testa sporgente, e portato a tavola con l’intenzione di aprirgli il cranio perché gli si possa mangiare, da vivo, il cervello. Immagino che anche questa scena sia stata pensata a beneficio del buon umore del pubblico (poche le risate e molti i mugugni in sala, domenica). È vero che il codice espressivo, gotico comico o grottesco che sia, del giovane spettatore cinese non deve per forza coincidere con quello del pubblico, per esempio, italiano. Ma è lecito chiedersi se il cattivo gusto non resti comunque tale anche a distanze geografica­mente abissali, specie per un prodotto che si vorrebbe «capolavoro» globale. E dunque se la violenza e la truculenza che hanno impression­ato M. non siano piuttosto il risultato di un calcolo commercial­e che se ne frega della sensibilit­à infantile universale, cinese o italiana non importa. Ancora più sconvolgen­te, scorrendo a posteriori i fiumi di commenti e recensioni su Internet, è constatare che nessuna sensibilit­à si dichiari turbata da questo orribile horror che inganna i bambini (e, prima ancora, i loro genitori) e che anzi molti definiscon­o «divertente».

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