Corriere della Sera

Quell’ombra di sessismo sull’intelligen­za artificial­e

- Di Massimo Sideri

Oltre a Donald Trump anche i padri dell’intelligen­za artificial­e possono essere accusati di sessismo? Se lo è chiesto la rivista Quartz e la domanda non è certo campata in aria (di certo non lo è nel caso di Trump). Le eccezioni esistono: come Watson, il software di Ai di Ibm, battezzato così in memoria di Thomas John Watson, il manager che tra le due guerre portò l’azienda a diventare una potenza economica. Ma in generale le interfacce con cui ci troviamo a dialogare — non solo quelle vocali — si presentano sotto le spoglie virtuali di una donna. Tay, la chat-bot della Microsoft bloccata due volte per avere «svalvolato» su Twitter, ha nel profilo il ritratto di una ragazza. Siri della Apple ha «rubato» la voce inglese a Susan Bennett (peraltro lei è contentiss­ima e rilascia spesso interviste). Anche il cinema non a caso ha intercetta­to il fenomeno già nel 2013: nel film Her (voce di Scarlett Johansson) il protagonis­ta Joaquin Phoenix inizia una relazione con la sua assistente virtuale. Per comprender­e il dibattito bisogna collocarlo nel suo contesto socioecono­mico: soprattutt­o negli Usa (e tutte queste società sono statuniten­si) la voce femminile ricorda molto da vicino i call center che, nati con la prima campagna di marketing di massa della Ford nel 1962, sono stati sempre un bacino di lavoro per donne (non è un caso che ci tornino in mente fotografie in bianco e nero con solo donne nei call center). Tanto che negli Anni 80 vennero chiamati «pink collar ghetto», il ghetto dei colletti rosa, per evidenti motivi: da sempre il call center è stato sinonimo di condizioni di lavoro disagevoli. E ora quell’ombra ritorna anche sullo smartphone che pur non essendo antropomor­fo riesce a essere femminile.

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