RIFORME STRUTTURALI, COSTI ELETTORALI E NUOVE DIFFICOLTÀ
Bisogna intervenire in tutti i settori che influiscono su competitività ed efficienza della nostra economia
Pochi giorni fa, il 12 maggio, il Daily Telegraph ha pubblicato un lungo articolo di A. Evans-Pritchard sui guai economici del nostro Paese: «L’Italia deve scegliere tra l’Euro e la propria sopravvivenza». I dati che illustra e gli argomenti che usa mostrano come la nostra economia soffra nelle maglie delle politiche di austerità europee, ma non mostrano affatto che starebbe meglio se, o per decisione unilaterale o come conseguenza di eventi esterni, l’Italia uscisse dall’euro. E, mentre Evans-Pritchard giustamente sottolinea la presenza e il successo di movimenti populisti favorevoli a questa opzione, sbaglia a dare l’impressione che essa al momento sia seriamente considerata dalle forze di governo. Queste, e gran parte degli economisti e degli operatori economici, sono infatti d’accordo su due giudizi.
Il primo è che il ristagno in cui il nostro Paese è entrato dalla fine del secolo scorso (e che rende molto difficile una riduzione del rapporto tra debito e Pil, esponendoci a forti rischi di instabilità finanziaria) è solo in parte dovuto alle politiche di austerità che l’Europa ci impone: per questa parte e per facilitare le riforme necessarie sarebbe dunque un bene se l’austerità si attenuasse. In parte maggiore è però dovuto a cause interne: anche se sono sottoposte alle stesse regole, gran parte delle altre economie della zona euro crescono di più dell’Italia, dove invece la produttività complessiva è stagnante e la competitività in declino. Dunque il nostro Paese richiede riforme radicali in tutti i settori che influiscono sulla competitività e sull’efficienza d’insieme della sua economia e delle sue istituzioni allo scopo di sottrarsi al declino cui sembra condannato (La lista delle debolezze italiane e delle riforme necessarie è lunga: essa è dettagliata, ad esempio, nel Country Report della Commissione Europea, Bruxelles, 26/2/ 2016). Il secondo giudizio, sul quale convergono anche critici radicali delle politiche europee (ad esempio T. Fazi e G. Iodice, La battaglia contro l’Euro, 2016), è che un’uscita dall’euro produrrebbe uno sconquasso economico e gravi sofferenze per i cittadini e non assicurerebbe affatto che le riforme strutturali dalle quali dipende la crescita futura vengano poi attuate: ci ritroveremmo più poveri e con le stesse riforme da fare.
Questi giudizi sono anche quelli che prevalgono sui giornali e negli altri media: si vedano da ultimo gli ottimi articoli di Alesina e Giavazzi sul Corriere del 20 aprile («Lo slancio perduto nell’economia») e di Ricolfi sul Sole 24 Ore del 5 maggio («Perché l’Italia non cresce come il resto dell’eurozona?»). Difficile non essere d’accordo con Ricolfi quando si chiede: «che cosa impedisce all’Italia di fare come gli altri Paesi»? e quando aggiunge che «è dalla risposta a questa domanda che dipende il futuro dell’Italia». E hanno ragione Alesina e Giavazzi quando scrivono che le ragioni delle nostre debolezze «hanno radici lontane e soluzioni non ovvie, ma anziché illuderci che per riprendere a crescere basti qualche intervento sulla domanda [in altre parole, una qualche attenuazione del regime di austerità] vogliamo mettere questo tema in cima all’agenda di politica economica?» I nostri autori sanno però benissimo che per seguire le loro raccomandazioni ci si scontra contro due difficoltà formidabili.
La prima è che per mettere in atto una strategia di riforme strutturali bisogna avere una spiegazione - una narrativa, come si dice adesso - di perché siamo finiti nei guai in cui siamo. E, alla luce di questa, disegnare un programma di riforme da attuare in condizioni di risorse economiche e amministrative limitate, come sono oggi e resteranno nei prossimi anni. Insomma, un chiaro disegno di priorità. Come scriveva Ricolfi in un altro suo articolo, le spiegazioni, le narrative non mancano: economisti, storici, sociologi e politologi lavorano sodo e pubblicano molto. Ma averne tante è come non averne alcuna: l’importante è averne una e scommettere su quella, rispondendo razionalmente alle critiche che ogni scelta comporta. La seconda difficoltà è che - se la scelta è seria e i guasti cui vuole rimediare sono pesanti — essa comporta costi politici elevati: le uniche riforme strutturali che gli elettori approvano sono quelle che danno loro benefici immediati o i cui costi ricadono sugli altri. Ma, per definizione, riforme strutturali miranti a estirpare inefficienze incancrenite da cattive pratiche e adattamenti durati anni non danno benefici immediati e raramente i loro costi possono essere fatti ricadere su un numero limitato e politicamente irrilevante di «altri». In queste condizioni come può un governo, sottoposto a prove elettorali ininterrotte, assicurarsi la continuità necessaria a tenere in vita un impulso riformatore?
Comprensibilmente gli economisti non si curano di questi problemi e le loro critiche, se sono fondate, sono comunque utili. Ma sarebbero ancor più utili se prestassero qualche attenzione al problema di «come far passare le riforme», per riprendere il titolo di un saggio del grande Albert Hirschman, che non tracciava confini tra economia e interpretazione storico-politica.