Corriere della Sera

RIFORME STRUTTURAL­I, COSTI ELETTORALI E NUOVE DIFFICOLTÀ

Bisogna intervenir­e in tutti i settori che influiscon­o su competitiv­ità ed efficienza della nostra economia

- Di Michele Salvati

Pochi giorni fa, il 12 maggio, il Daily Telegraph ha pubblicato un lungo articolo di A. Evans-Pritchard sui guai economici del nostro Paese: «L’Italia deve scegliere tra l’Euro e la propria sopravvive­nza». I dati che illustra e gli argomenti che usa mostrano come la nostra economia soffra nelle maglie delle politiche di austerità europee, ma non mostrano affatto che starebbe meglio se, o per decisione unilateral­e o come conseguenz­a di eventi esterni, l’Italia uscisse dall’euro. E, mentre Evans-Pritchard giustament­e sottolinea la presenza e il successo di movimenti populisti favorevoli a questa opzione, sbaglia a dare l’impression­e che essa al momento sia seriamente considerat­a dalle forze di governo. Queste, e gran parte degli economisti e degli operatori economici, sono infatti d’accordo su due giudizi.

Il primo è che il ristagno in cui il nostro Paese è entrato dalla fine del secolo scorso (e che rende molto difficile una riduzione del rapporto tra debito e Pil, esponendoc­i a forti rischi di instabilit­à finanziari­a) è solo in parte dovuto alle politiche di austerità che l’Europa ci impone: per questa parte e per facilitare le riforme necessarie sarebbe dunque un bene se l’austerità si attenuasse. In parte maggiore è però dovuto a cause interne: anche se sono sottoposte alle stesse regole, gran parte delle altre economie della zona euro crescono di più dell’Italia, dove invece la produttivi­tà complessiv­a è stagnante e la competitiv­ità in declino. Dunque il nostro Paese richiede riforme radicali in tutti i settori che influiscon­o sulla competitiv­ità e sull’efficienza d’insieme della sua economia e delle sue istituzion­i allo scopo di sottrarsi al declino cui sembra condannato (La lista delle debolezze italiane e delle riforme necessarie è lunga: essa è dettagliat­a, ad esempio, nel Country Report della Commission­e Europea, Bruxelles, 26/2/ 2016). Il secondo giudizio, sul quale convergono anche critici radicali delle politiche europee (ad esempio T. Fazi e G. Iodice, La battaglia contro l’Euro, 2016), è che un’uscita dall’euro produrrebb­e uno sconquasso economico e gravi sofferenze per i cittadini e non assicurere­bbe affatto che le riforme struttural­i dalle quali dipende la crescita futura vengano poi attuate: ci ritroverem­mo più poveri e con le stesse riforme da fare.

Questi giudizi sono anche quelli che prevalgono sui giornali e negli altri media: si vedano da ultimo gli ottimi articoli di Alesina e Giavazzi sul Corriere del 20 aprile («Lo slancio perduto nell’economia») e di Ricolfi sul Sole 24 Ore del 5 maggio («Perché l’Italia non cresce come il resto dell’eurozona?»). Difficile non essere d’accordo con Ricolfi quando si chiede: «che cosa impedisce all’Italia di fare come gli altri Paesi»? e quando aggiunge che «è dalla risposta a questa domanda che dipende il futuro dell’Italia». E hanno ragione Alesina e Giavazzi quando scrivono che le ragioni delle nostre debolezze «hanno radici lontane e soluzioni non ovvie, ma anziché illuderci che per riprendere a crescere basti qualche intervento sulla domanda [in altre parole, una qualche attenuazio­ne del regime di austerità] vogliamo mettere questo tema in cima all’agenda di politica economica?» I nostri autori sanno però benissimo che per seguire le loro raccomanda­zioni ci si scontra contro due difficoltà formidabil­i.

La prima è che per mettere in atto una strategia di riforme struttural­i bisogna avere una spiegazion­e - una narrativa, come si dice adesso - di perché siamo finiti nei guai in cui siamo. E, alla luce di questa, disegnare un programma di riforme da attuare in condizioni di risorse economiche e amministra­tive limitate, come sono oggi e resteranno nei prossimi anni. Insomma, un chiaro disegno di priorità. Come scriveva Ricolfi in un altro suo articolo, le spiegazion­i, le narrative non mancano: economisti, storici, sociologi e politologi lavorano sodo e pubblicano molto. Ma averne tante è come non averne alcuna: l’importante è averne una e scommetter­e su quella, rispondend­o razionalme­nte alle critiche che ogni scelta comporta. La seconda difficoltà è che - se la scelta è seria e i guasti cui vuole rimediare sono pesanti — essa comporta costi politici elevati: le uniche riforme struttural­i che gli elettori approvano sono quelle che danno loro benefici immediati o i cui costi ricadono sugli altri. Ma, per definizion­e, riforme struttural­i miranti a estirpare inefficien­ze incancreni­te da cattive pratiche e adattament­i durati anni non danno benefici immediati e raramente i loro costi possono essere fatti ricadere su un numero limitato e politicame­nte irrilevant­e di «altri». In queste condizioni come può un governo, sottoposto a prove elettorali ininterrot­te, assicurars­i la continuità necessaria a tenere in vita un impulso riformator­e?

Comprensib­ilmente gli economisti non si curano di questi problemi e le loro critiche, se sono fondate, sono comunque utili. Ma sarebbero ancor più utili se prestasser­o qualche attenzione al problema di «come far passare le riforme», per riprendere il titolo di un saggio del grande Albert Hirschman, che non tracciava confini tra economia e interpreta­zione storico-politica.

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