Almodóvar sorprende tra memoria e dolore
Almodóvar sorprende con «Julieta», film sul dolore Un nuovo stile senza eccessi né personaggi barocchi
Almodóvar cambia stile. Julieta, proposto ieri al Festival di Cannes, è sì l’ennesimo ritratto femminile, ma stavolta più trattenuto e doloroso. Un dolore che sa prendersi le sue rivincite. (Nella foto, il regista spagnolo con Adriana Ugarte ed Emma Suárez)
L’autore spagnolo punta alla Palma con un dramma
Contropiede Almodóvar. Chi si aspetta il «solito» film colorato e barocco è avvertito: questa volta il regista spagnolo cambia radicalmente stile e messa in scena. Julieta (presentato ieri a Cannes e da settimana prossima nei cinema italiani) è sì l’ennesimo ritratto femminile del regista, ma questa volta più trattenuto, amaro, doloroso. Perché se c’è un tema che emerge dal film, oltre al peso che vi gioca il destino, è proprio il dolore, una specie di porta stretta e obbligata attraverso cui le persone devono passare per riuscire a capire il senso della propria vita. Un dolore che a volte è represso, sepolto, ma che poi finisce per prendersi la sua rivincita, obbligando le persone a farci i conti.
Come succede appunto alla Julieta del film, cinquantenne madrilena (Emma Suárez) cui il casuale incontro con l’amica d’infanzia della figlia apre abissi di ricordi: intuiamo che i rapporti sono interrotti da anni, che ignorava avesse dei figli e che si fosse trasferita all’estero (forse in Svizzera, forse in Italia).
A spiegare cosa è successo e l’ha spinta a rifiutare di seguire in Portogallo l’uomo che ama ( Darío Grandinetti) ci penserà la stessa Julieta che ripercorre in una specie di diario tutta la sua storia. (A proposito, anche qui, si vede un protagonista scrivere sul foglio bianco, come in Paterson, in Mademoiselle, in Mal de pierres, in Loving: curioso questo bisogno di filmare l’atto della scrittura, vedere le parole formarsi sullo schermo).
Con una serie di lunghi flash-back il film (attraverso i
Succede per Julieta che incontra Xoan su un treno per sfuggire a un viaggiatore che lei crede invadente e molesto e invece sta cercando (invano) un appiglio per non mettere in atto i suoi propositi suicidi. Succede a Xoan, cui la morte della moglie da anni in coma elimina ogni ostacolo nel suo rapporto con Julieta. Succede col padre della protagonista, cui la malattia della madre apre la strada per un nuovo amore. E se non è il dolore è la gelosia, la rabbia, l’invidia…
Riducendo al minimo la propria tradizionale esuberanza e la vitalità contagiosa delle sue precedenti eroine, capaci di superare ogni ostacolo, Almodóvar racconta la depressione e la sofferenza che possono catturare le persone. Un po’ per «colpa» dei racconti di Alice Munro (dalla raccolta In fuga) che sono serviti da ispirazione al film, ma molto per un’evidente cambio di tono registico e psicologico: finiti gli anni dell’entusiasmo spensierato e colorato, oggi il regista parla di cose che in passato aveva rimosso ma che evidentemente non aveva cancellato. A cominciare dal senso di colpa, che in Julieta diventa il vero motore del dolore che divora l’anima delle persone.
Ne esce così un film volutamente incompiuto, che lascia le soluzioni sospese, che porta lo spettatore a confrontarsi con il prezzo che ogni felicità sembra avere (non c’è un personaggio che non faccia i conti con la morte, la malattia o l’abbandono) ma che pur negando ogni lieto fine ci ricorda come l’esperienza del dolore e della sofferenza vadano guardare in faccia, senza infingimenti e soprattutto senza false coscienze. E che sullo schermo prendono la forma di uno scavo doloroso e sottile nella vita delle persone.