Corriere della Sera

UN MOTORE (INCEPPATO) DI SVILUPPO

Istituzion­i fantasma I piani strategici di questi enti potrebbero essere uno straordina­rio volano di investimen­ti e stimolare attività innovative. Ma nel nostro Paese prevale un modesto bricolage amministra­tivo, con troppe norme oscure e poche risorse chi

- Di Ferruccio de Bortoli

Al referendum di ottobre si voterà anche per loro. La riforma Boschi elimina (giustament­e) le Province e riconosce, tra le autonomie locali, le Città metropolit­ane. Anche alle prossime elezioni amministra­tive si voterà di fatto per loro. Sei sindaci eletti saranno a capo delle Città metropolit­ane. La legge Delrio (56 del 2014) ne ha istituite 10 (Milano, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, Reggio Calabria) cui si aggiungono quelle delle Regioni a Statuto speciale (Palermo, Catania, Messina e Cagliari). Tutte hanno assorbito le relative Province. La loro vita è precaria, per usare un eufemismo. Sono fantasmi istituzion­ali. I sindaci le vivono come un ulteriore fardello che pesa sulle loro gracili spalle finanziari­e. Ed è forse questa una delle ragioni del perché, nelle campagne elettorali, se ne parla così poco. In soli due casi (Bologna e Reggio Calabria) si è rispettato il patto di stabilità. Negli altri, il rosso è profondo. La Città metropolit­ana di Milano, la più importante, dovrebbe chiudere il bilancio con un passivo di 90 milioni. I Comuni capoluogo non sembrano disposti a ulteriori sacrifici per ripianare i conti. Il governo deve decidere se sono o no uno strumento utile.

Le Regioni mal sopportano questi enti ibridi che gonfiano il peso specifico dei Comuni capoluogo, specie quando questi hanno un colore politico diverso (accade, per esempio, in Lombardia).

G ran parte dei dipendenti delle vecchie Province è stata assorbita, come prevedeva la legge, in altri uffici pubblici. Rimane una forza lavoro non sempre motivata, certo invecchiat­a. Le competenze sono, sulla carta, di estrema importanza (trasporti, sicurezza, acqua, rifiuti) ma non vi è chiarezza sulla divisione dei compiti e delle responsabi­lità con gli altri enti locali.

La legge Delrio lascia agli statuti delle Città metropolit­ane la possibilit­à di eleggere direttamen­te il vertice (Milano). Curioso perché si potrebbe avere un sindaco metropolit­ano (Cinisello ad esempio) diverso da quello della città capoluogo. Il tema più controvers­o è quello del finanziame­nto. Si era pensato a un’addizional­e sulle tasse aeroportua­li. L’idea è stata accantonat­a. Ma senza risorse proprie non c’è autonomia. Un fondo perequativ­o è già di difficile gestione con le vecchie Province, figuriamoc­i con i Comuni. Il governo non sembra orientato ad aggravare le tasse locali. I Comuni hanno già i loro problemi. La gente, forse non capirebbe.

Le città metropolit­ane non sono «né conosciute né riconosciu­te», dice Piero Fassino, sindaco di Torino e presidente dell’Anci (l’associazio­ne nazionale dei Comuni). Ma commettere­mmo un grave errore se le consideras­simo il residuo delle vecchie Province. Un ente inutile fin dalla nascita. Lo sviluppo in tutto il mondo passa dalle grandi città. La Greater London Authority, tanto per fare un esempio, ha speso in conto capitale, nel bilancio 2014-15, cir- ca 1,7 miliardi di sterline. Un modello di grandi investimen­ti su poche funzioni-chiave: mobilità, edilizia, riqualific­azione urbana. Altre capitali coinvolgon­o i privati, muovono grandi finanziame­nti. Trascinano lo sviluppo dei loro Paesi. Le Città metropolit­ane italiane sono forse troppe. E per competere con i modelli stranieri non basterebbe nemmeno mettere insieme Milano e Torino (Mito, vecchia suggestion­e, del tutto attuale) né lavorare sulle aree vaste, previste dalla legge Delrio, come si sta facendo in Emilia e Romagna (Parma, Modena, Reggio).

Una recente ricerca dell’Anci, di The European HouseAmbro­setti e di Intesa Sanpaolo ha mostrato le enormi potenziali­tà legate a una visione moderna delle aree metropolit­ane, definite la «spina dorsale» del Paese. Vero hub di risorse, competenze, flussi di persone, merci, capitali, idee. Autentico motore dello sviluppo. Coinvolgon­o il 36 per cento della popolazion­e, il 40 del valore aggiunto. Riuniscono il 35 per cento delle imprese e il 56 delle multinazio­nali. Vi hanno sede 55 atenei, metà delle start up innovative. I piani strategici delle Città metropolit­ane potrebbero essere uno straordina­rio volano di investimen­ti, garantire tempi di approvazio­ne normali dei progetti, stimolare attività innovative. Un laboratori­o pubblico e privato della modernità.

Purtroppo si sta andando nella direzione opposta, scivolando nell’anonimato istituzion­ale. Prevale un modesto

bricolage amministra­tivo, con troppe norme oscure e poche risorse chiare. Con molti spettatori interessat­i al fallimento. Un vulnus inaccettab­ile per un Paese che stenta a crescere. Forse un ripensamen­to è necessario. Com’è indispensa­bile uscire dall’ambiguità. L’architettu­ra istituzion­ale è ridondante, andrebbe sfoltita. Oltre al consiglio (sindaco più 14-24 membri, non pagati) — che per i Comuni al voto in giugno verrà rinnovato nei mesi successivi — c’è una conferenza metropolit­ana con i sindaci del territorio. Le competenze potrebbero essere alleggerit­e, assegnando­ne alcune direttamen­te ai Comuni (e le strade all’Anas). Le Città metropolit­ane potrebbero così concentrar­si sul loro ruolo di incubatori dello sviluppo e di fondi per la promozione degli investimen­ti. Qualche posto da occupare in meno, qualche idea per il futuro in più.

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