Ilva, l’Italia finisce sotto processo
Procedimento alla Corte dei diritti umani dopo la denuncia di 182 abitanti di Taranto
Non è stata difesa la salute dei cittadini. Con questa motivazione la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha aperto un procedimento contro l’Italia per il caso Ilva di Taranto.
Lo Stato italiano è sotto processo davanti alla Corte europea dei diritti umani, accusato di non aver tutelato abbastanza la salute e la vita dei cittadini di Taranto.
All’Ilva, in sostanza, si è continuato a produrre anche senza il rispetto delle misure ambientali richieste dalle leggi nazionali ed europee, grazie ai continui decreti governativi (in tutto nove) che spesso hanno «superato» i provvedimenti della magistratura orientati invece allo stop proprio in nome della salute pubblica.
Partendo da questo principio-base la Corte di Strasburgo ha deciso di accogliere il ricorso di 182 cittadini di Taranto che nel 2015 hanno chiesto, appunto, di mettere lo Stato sul banco degli accusati e hanno invocato la « trattazione prioritaria» della loro causa perché «sono a rischio delle vite umane». E i giudici li hanno ascoltati. Corsia preferenziale perché il caso è urgente e, nel giro di pochi mesi, ecco l’apertura del procedimento.
«A Taranto i governi non si sono mai interessati veramente della salute della gente » commenta a caldo Lina Ambrogi Melle, della lista degli Ecologisti e prima firmataria del ricorso. «Qui ci si ammala e si muore per l’inquinamento che viene dall’area a caldo dell’Ilva, eppure sembra che a nessuno importi nulla. Anni di polveroni sul da farsi e alla fine non succede mai nulla, nemmeno le cose più elementari. I dati scientifici ci dicono che l’Ilva inquina e che c’è un nesso fra l’inquinamento e alcune malattie, ci dicono che a Taranto ci si ammala e si muore di più che nel resto della regione». I dati a cui si riferisce Ambrogi Melle sono soprattutto quelli dello studio epidemiologico «Sentieri» dell’Istituto Superiore di Sanità, pubblicati una prima volta nel 2012 e aggiornati nel 2014. «Noi abbiamo portato quei dati e altri più recenti a Strasburgo assieme ai nove decreti governativi di questi ultimi anni, alle rilevazioni ambientali fatte dai commissari, ad alcuni atti che fanno parte delle carte del maxi processo aperto proprio oggi (ieri, ndr). E la Corte ha deciso che tutto quel materiale era abbastanza importante e solido per mettere sotto accusa lo Stato italiano».
L’avvocato che segue i 182 tarantini, Andrea Saccucci, fa sapere che la priorità delle vittime non è il risarcimento. «Trattandosi di un caso di importanza generale confidiamo di ottenere una sentenza di principio — dice — che imponga allo Stato italiano di adottare misure necessarie a rendere la produzione dell’Ilva conforme alle disposizioni ambientali nazionali ed europee».
Nella storia infinita dello stabilimento siderurgico di Taranto e delle sue mille vicende giudiziarie c’è dal 2008 in poi il nome di Vincenzo Fornaro, allevatore che nel dicembre di quell’anno fu costretto ad abbattere 605 capi di bestiame perché nelle loro carni e nel loro latte era presente una quantità eccessiva di diossina. È anche lui fra i firmatari del ricorso alla Corte europea dei diritti umani. «Noi abbiamo dovuto cessare l’attività agricola, come tante altre aziende — racconta —. Lo Stato ci ha sempre ignorati. Per me sarebbe stato facile mollare tutto e andare via ma ho voluto resistere, l’ho fatto per me stesso e per la mia città. Ho aperto un maneggio e ora coltivo canapa, che è una pianta in grado di assorbire le sostanze inquinanti dal terreno. Le notizie che arrivano da Strasburgo sono finalmente delle buone notizie. Vuol dire quantomeno che per la prima volta qualcuno si degnerà di ascoltare le nostre ragioni».