Corriere della Sera

L’ASTENSIONI­SMO È UNA MALATTIA CHE MINA LE DEMOCRAZIE

Allarme La corruzione, il discredito, la sfiducia nei partiti, vissuti come sopraffatt­ori e non come portatori di soluzioni, alimentano il distacco

- di Marco Cianca

S usanna Camusso lo dice con tristezza: «Nelle migliaia di assemblee che abbiamo fatto per presentare la nostra carta dei diritti, i lavoratori non hanno voluto sentir parlare di politica. I partiti non ci riconoscon­o, accusano, e noi non li riconoscia­mo, non ci meritano. Non c’è di sicuro corsa al voto, semmai c’è la corsa a non votare». Il segretario generale della Cgil, nel presentare il libro di Bruno Ugolini sul Jobs act ( Vite ballerine, Ediesse) dà voce a quel doloroso distacco che gonfia da sinistra il popolo dell’astensioni­smo.

Un fenomeno emerso con evidenza alle regionali del 2014: in Emilia Romagna l’affluenza alle urne crollò al 38 per cento. Lo si sapeva, era nell’aria, i dirigenti locali del sindacato avevano lanciato l’allarme, inascoltat­i. Ora la campana della disaffezio­ne suona di nuovo. Che succederà il 5 giugno, alle amministra­tive, e il 16 ottobre, al referendum sulla riforma costituzio­nale? Quando i partiti si delegittim­ano a vicenda e anche al proprio interno, quando tutto finisce in rissa, quando la chiamata al voto assume i connotati di un’ordalia, se non si ha più alcuna fede negli dei della politica, è difficile che si scenda nell’arena.

L’astensione è crescente, continua, apparentem­ente inarrestab­ile. Il grafico sui votanti dal 1946 al 2013, elaborato dall’Istituto Cattaneo, appare come la curva in picchiata di un crac senza rimedio. In Italia, per la verità, la partecipaz­ione resta ancora una delle più alte ma l’erosione sembra procedere in progressio­ne geometrica. E non può più essere esorcizzat­a come un’espression­e di qualunquis­mo, riconducib­ile per lo più all’area di centro-destra.

Due studiosi come Pasquale Colloca e Dario Tuorto parlano di «smobilitaz­ione punitiva», che per quanto riguarda l’elettorato di centro-sinistra, compare per la prima volta nelle elezioni del 2008, dopo la caduta del secondo governo Prodi. È come se da allora il lutto dell’Ulivo non fosse stato elaborato e si fosse poi intrecciat­o con l’antirenzis­mo, prolungame­nto, nell’immaginari­o degli orfani di quell’esperienza, dell’anticraxis­mo e dell’antiberlus­conismo. Ha scritto Ilvo Diamanti: «Oggi l’astensione è il voto di chi non vota. E prima votava a sinistra».

Ma il distacco è in realtà senza confini politici, invade tutte le aree sociali. Apatici, rancorosi, indifferen­ti, indignati, disgustati, delusi, cinici, nichilisti, nostalgici, paurosi, apocalitti­ci, idealisti, disperati, attendisti, insofferen­ti. L’astensione ha mille volti, è un moto dell’animo. Non esiste, non può esistere, un partito dell’astensione. Troppo diverse le motivazion­i, le idee, le culture, gli obiettivi. Ma il filo comune del rifiuto dell’attuale politica rischia di trasformar­si in un cappio che strangola le libere elezioni.

La destra che si era adunata sotto le bandiere di Silvio Berlusconi ora è divisa e litigiosa come nel campo di Agramante, il centro ricorda quel personaggi­o di Carosello che gonfiando il petto diceva «So’ Caio Gregorio, il guardiano del pretorio», la sinistra non è di sinistra, la sinistra-sinistra sembra Chingachgo­ok, l’ultimo dei mohicani. E il movimento di Beppe Grillo, la grande novità dell’antipoliti­ca, appare in fase opaca e involutiva, scontando l’ammoniment­o di Pietro Nenni:«Quando fai il puro trovi sempre uno più puro che ti epura».

La scena complessiv­a è tragicomic­a, un misto tra Robespierr­e, «la virtù produce la felicità come il sole produce la luce», e Totò, «ma mi faccia il piacere!». Lo spettacolo, una perenne campagna elettorale, non strappa certo l’applauso ma neanche il voto. Che le urne restino aperte un solo giorno o magari per una settimana, alla fine non cambia molto.

La questione non è solo di casa nostra. In tutte le democrazie la corruzione, il discredito, la sfiducia nei partiti vissuti come sopraffatt­ori e non come portatori di soluzioni alimentano il distacco dalle istituzion­i. Un male che mina anche le fondamenta dell’Unione Europea. Lo scrittore belga David Van Reybrouck, convinto che la crisi possa diventare irreversib­ile, è arrivato a proporre il ritorno al sorteggio per le cariche politiche, come nell’Atene del Quinto Secolo ( Contro le elezioni-perché votare non è più democratic­o, Feltrinell­i editore).

Soluzioni bizzarre, che danno però il senso di un allarme diffuso, generale. Adriano Olivetti, imprendito­re illuminato e utopista, già nel 1949, teorizzand­o le Comunità, metteva in guardia dalla crisi del parlamenta­rismo: «Il mandato politico, nella sua vera essenza, è soltanto un atto di fiducia degli uomini in un altro uomo». Quando la fiducia non c’è, la democrazia muore.

Erosione crescente Ora la campana della disaffezio­ne suona di nuovo. Che succederà il 5 giugno, alle amministra­tive, e il 16 ottobre, al referendum ?

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