Daphne, una storia da favola: dai tavoli dell’osteria a Cannes
Un amore dietro le sbarre in «Fiore» diretto da Giovannesi La protagonista: attrice per caso, facevo la cameriera a Roma
«Ha fatto sentire me un debuttante». Valerio Mastandrea sintetizza con efficacia quello che un po’ tutti, qui a Cannes, stanno pensando di Daphne Scoccia, 21 anni. È lei il cuore del nuovo film di Claudio Giovannesi ( Alì ha gli occhi
azzurri), accolto ieri alla Quinzaine des réalisateurs con lunghi applausi e commozione (e dal 1 giugno nei nostri cinema (ma il 25 maggio già a Roma e Milano). «I suoi occhi sono, letteralmente, lo sguardo del regista, una fusione che raramente ho visto su un set». Uno sguardo che ci fissa da dietro le sbarre dell’istituto penale di Casal del Marmo, a Roma (ma parte delle riprese sono state effettuate in quello, ristrutturato ma ancora vuoto, dell’Aquila).
Daphne Bonori, così si chiama nel film, ci è finita per furtarelli di cellulari in metropolitana, rischia di rimanerci a lungo perché suo padre (Mastandrea, ex detenuto, che del film è anche produttore associato) non ha modo di prenderla con sé. Lì incontra Josh, anche lui dentro per rapina, e se ne innamora. Anche se comunicare è praticamente impossibile. «Non è un film sul carcere — precisa Giovannesi che ha coinvolto diversi attori non professionisti, ex detenuti o in regime di messa alla prova — ma su due ragazzi che si amano contro ogni ostacolo, novelli Giulietta e Romeo. Nei riformatori ragazzi e ragazze hanno il divieto assoluto di incontrarsi. Ambientare il film lì dentro era il modo giusto per raccontare il desiderio di amarsi, la sete di libertà. Sono solo ragazzi rinchiusi, colpevoli di fronte alla legge ma innocenti in quanto giovani».
Grandi occhi neri («Ci siamo innamorati del suo volto magnifico», dice Giovannesi tra i registi della seconda stagione di Gomorra), minuta, Daphne Scoccia racconta con stupore come tutto è cominciato: «Lavoravo come cameriera in un’osteria di Roma, a Monteverde, Claudio ci è venuto con la casting director, due giorni dopo mi hanno chiamato per il provino. Ci speravo proprio in un cambio di vita».
Con l’altra Daphne, dice, ha molto in comune. «Non il carcere, non sono mai stata in prigione. Ma la mancanza d’amore che muove lei mi sta a pennello, soprattutto in quel momento». Marchigiana di San Benedetto del Tronto, a Roma è arrivata qualche anno fa, dopo aver lasciato la scuola: liceo scientifico prima, artistico dopo. «Scuola, casa e famiglia mi andavano stretti. Ho fatto tanti lavoretti: operaia, a confezionare spiedini di surgelati, babysitter, pasticcera, barista, cameriera».
Accanto a lei, Josciua Algeri, anche lui ventunenne, una figlia di otto mesi. In prigione c’è stato davvero, il permesso per espatriare è arrivato solo tre giorni fa. «Ho conosciuto Giovannesi casualmente in clinica, proprio mentre nasceva mia figlia e ho fatto il provino lì. Sono stato due anni in galera e per quattro anni ho avuto problemi con la giustizia. Mi chiamavo un figlio della strada, ma da questa esperienza è nato, appunto, un fiore». All’inizio, racconta ancora Daphne, non è stato facile recitare, soprattutto nelle scene di tenerezza. «Con Josciua ci siamo incontrati ai provini. Sul set al principio sentivo vergogna a mostrare amore a uno che non conoscevo, ho dovuto combattere la mia introversione. Poi è nata un’amicizia che ci ha aiutato. Il contatto con il carcere è durissimo, senti l’effetto della privazione appena ci entri dentro».
Non si aspettava tanti applausi e tanta emozione. Ora non le dispiacerebbe continuare con il cinema. «Certo sì, qui a Cannes è tutto nuovo, diverso, vorrei che continuasse. I miei vogliono venire a Roma a vederlo: non se lo aspettavano, dal niente, al mondo che parla di me». Ride dei tacchi alti che si è messa per l’occasione ma tiene i piedi per terra. «Questo è un paese dei balocchi, mi giro e vedo le Maserati. Mi dovrò riabituare alla Punto che ho sotto casa».