Corriere della Sera

Minacce e violenze Aggrediti 650 arbitri «Ma non lasciamo»

- di Giusi Fasano

ultimo caso è di tre giorni fa, Coppa dei Campioncin­i per gli esordienti a Quattro Castella, in provincia di Reggio Emilia. In campo giocatori tredicenni (Terre Matildiche contro Paradigna) sugli spalti i loro genitori. Con i suoi 23 anni e le sue poche partite alle spalle, Giovanni Brugaletta si è ritrovato a fronteggia­re una tale sfilza di insulti e minacce da temere per la sua incolumità fisica. Soprattutt­o dopo aver fischiato due rigori a favore di Terre Matildiche e l’espulsione di un giocatore e di un dirigente della squadra avversaria che lo avevano coperto di improperi. Finale di partita tesissimo e, dopo il fischio di chiusura, lui che si barrica negli spogliatoi e chiama i carabinier­i: «Mi minacciano, io non esco se non venite a scortarmi fino alla macchina».

La pattuglia è arrivata, gli animi si sono spenti e nessuno è finito al pronto soccorso. Ma lui, l’arbitro, si è davvero spaventato molto. Anche perché «mi hanno urlato quando esci ti ammazzo» ha spiegato lui stesso al presidente della Polisporti­va Terre Matildiche Sergio Fedi. Che però ridimensio­na l’episodio: «Sono volate parole grosse da parte di alcuni genitori ma sinceramen­te non ho sentito quelle frasi minacciose».

«Sarebbe stato difficile passare fra un muro di gente che continuava a offendere e minacciare — rilancia Brugaletta —. Però, che lo sappiano: non smetterò certo di arbitrare, non ci penso minimament­e» ha detto al cronista del quotidiano locale che ha seguito l’incontro.

Nessun addio alle partite, come succede sempre. La parola d’ordine è resistere. Sempre. Anche quando si torna a casa amareggiat­i o, peggio, con un referto di pronto soccorso fra le mani. «Agli insulti, entro un certo limite, siamo abituati e per quanto fastidioso possa essere diciamo pure che un vaffa non ha mai ammazzato nessuno» riflette Luigi De Marco, 40 anni, un nome fra le centinaia di arbitri picchiati l’anno scorso (a Recanati, nelle Marche). «Quello che davvero non si può tollerare — dice — è la violenza fisica, sono le minacce, è l’insulto oltre il limite della goliardia». A lui sono toccati 82 giorni di prognosi per un calcio nei testicoli ricevuto da un giocatore appena ammonito durante una partita amatoriale. Inutile chiedergli se ha pensato di appendere la divisa al chiodo. «Mai» risponde. «Lei non sa quanta soddisfazi­one mi dà vedere i ragazzini che giocano una bella partita o sentire qualcuno che viene a farmi i compliment­i anche se ha perso. Io vado a consolare il portiere se incassa tanti gol... è una questione di cuore. Il calcio, quello bello, è una scuola di vita e lo sport, quello sano, è bellissimo. Io sono un marinaio e per qualche anno ho dovuto sospendere l’arbitraggi­o perché mi sono imbarcato. Mi è mancato molto, mi creda».

Sta facendo il soldato volontario per un anno e i campi di gioco mancano anche a Luigi Rosato, pure lui protagonis­ta suo malgrado di una pagina nera del calcio. Era ottobre di due anni fa e lui era ancora minorenne mentre arbitrava una partita di seconda categoria in provincia di Lecce. Un fischio non gradito e Luigi si è «guadagnato» l’ira senza senso dei più violenti. Spintoni, pugni, sangue. Con suo padre Daniele, poliziotto, che era fra il pubblico e che l’ha visto in difficoltà sparire nello spogliatoi­o. Pochi giorni dopo, nonostante la delusione, Luigi scrisse una lettera «per dire grazie al buono che c’è». Un messaggio potente, diventato virale. «Grazie papà, perché

oltre a sopportare freddo, vento e i soliti insulti rivolti a me, hai sopportato tanta rabbia per quello che è successo», diceva in un passaggio. E ancora: «Grazie a te mamma, perché nonostante lavavi la mia divisa sporca di sangue con gli occhi lucidi di pianto, mi hai sostenuto col tuo sorriso » . Per quell’arbitro ragazzino (oggi ha 19 anni) quella era una dichiarazi­one di guerra alla violenza, la sua risposta gentile all’arroganza. «Mai pensato di smettere» ha detto a chi gli ha poi chiesto «ma perché non lasci? chi te lo fa fare...». Oggi la divisa è nell’armadio ma solo temporanea­mente. Non lascia, Luigi, perché «le regole contano nella vita e fare l’arbitro significa avere rispetto per le regole e quindi per gli altri».

Il rispetto che non hanno avuto i soliti facinorosi quando un mese fa, nel Lecchese, proprio nel fine settimana contro la violenza verso gli arbitri, ne hanno mandato uno al pronto soccorso. L’ennesimo.

Nessuna scusa «Mi fa male vedere che a chi mi ha colpito non è mai venuto in mente di scusarsi»

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy