Novecento Eccentrico, brillante, rigoroso Manganelli «tapiro» dell’editoria
a l’aspetto di un tapiro baffuto, obeso e malinconico, di un commissario di polizia che il caso ha relegato in una remota provincia, tra funzionari ignoranti e meste camere d’affitto». È Giorgio Manganelli nel ritratto di Ernesto Ferrero. A leggerlo nelle lettere all’editore, ha un che di cerimonioso alla Gadda che trascolora in un’ironia non di rado sferzante. Nel 1975, quando lasciò l’Einaudi per passare alla Rizzoli, spiegò all’editore le sue inoppugnabili ragioni economiche, non senza esprimere la malinconia, il rammarico e la stima per «l’eleganza intellettuale, lo stile morale, e anche, debbo dire, l’impareggiabile raffinatezza grafica» della casa editrice torinese. Addirittura deplorando se stesso per la decisione.
Che personaggio, Manganelli. Già sapevamo tutto (o quasi) dello scrittore, ma adesso ci si rivela il consulente editoriale, che regala momenti di pura felicità mentale (per usare una formula della sua amica Maria Corti), oltre che di autentico divertimento. Il tutto grazie al lavoro d’archivio di Salvatore Silvano Nigro, il quale ha curato la raccolta delle schede e delle lettere che Manganelli scrisse in qualità di collaboratore e di lettore professionale per Garzanti, Einaudi, Mondadori e Adelphi, dal 1962 alla morte ( Estrosità rigorose di un consulente editoriale, Adelphi). Sono due libri in uno: da una parte i documenti di lettura; dall’altra le note di Nigro che svelano e riannodano fili e raccontano gli scambi e gli intrecci di sollecitazioni, di risposte ed eventuali rilanci, gli esiti delle varie proposte, dei rinvii e dei rifiuti.
Intreccio è la parola che meglio descrive la vita intellettuale di cui si nutriva una casa editrice. Si comincia con la Garzanti, a cui il giovane Manganelli, in qualità di anglista e collaboratore del « Giorno » (ma anche insegnante), accede grazie all’amico Pietro Citati nel gennaio 1961, mentre segretamente sta portando a termine Hilarotragoedia, che consegnerà nel 1963, tra mille scrupoli, a Feltrinelli: sono pareri «puntigliosi sempre, distesi e asciutti fino alla monosillabica opinione espressa con un “sì” o con un “no”», scrive Nigro. Ma l’aria che prenderanno i giudizi di Manganelli si riassumono sempre più nei due termini ossimorici presenti nel titolo della raccolta: «estrosità rigorose». Qualche esempio: «Ho letto libri assai peggiori: sebbene speri di leggerne di migliori»; «un romanzetto abbastanza insignificante, scritto con disinvoltura alquanto giornalistica, leggibile, certo, tra una stazione e l’altra, e l’ideale, poi, da dimenticare sulla spiaggia»… Alcune proposte avanzate alla Garzanti torneranno buone per Einaudi: è il caso di un romanzo di Angus Wilson, di cui Giorgio Manganelli (1922 - 1990) nel suo studio (foto Jerry Bauer)
Manganelli sottolinea anche a distanza di qualche anno che il «tipico artificio wilsoniano di concentrare una poderosa carica passionale in una vicenda futile qui appare in tutta la sua violenza».
Un tapiro? Sì, ma anche una «talpa di redazione», secondo Nigro. Dopo l’uscita del libro d’esordio, il 1964, l’anno «generoso, avventuroso » , vedrà Manganelli passare consulente all’Einaudi, immaginata come una « guarnigione » per cui avrebbe svolto il compito del «perlustratore, vessato da dispacci e segnali di fumo, di una terra tutta da esplorare e da cui far partire rapporti» (Nigro). Manganelli si immola sull’altare torinese: «Sarò sangue verginale versato sulle fondamenta della casa Einaudi», scrive. I Tra i suoi giudizi: «Ho letto libri assai peggiori: sebbene speri di leggerne di migliori»
suoi gusti, si sa, sono piuttosto orientati verso la sperimentazione linguistica: e lo si capisce subito dalla predilezione per la svizzera (di lingua italiana) Alice Ceresa e per il primo Sebastiano Vassalli (consigliati per la collana della «Ricerca letteraria»), ma anche per la linea barocca, coerente con il suo stesso esercizio stilistico di scrittore. Ma va detto, a onor del vero, che Manganelli non manca di sensibilità editoriale e anche quando non ama un libro, ne segnala comunque le potenzialità commerciali: per di più non è propriamente un lettore settoriale, ma spazia dalla lirica medievale alla contemporaneità. Consiglia di «tener d’occhio» il «molto prolifico e discontinuo » Anthony Burgess anche se lo considera «poco interessante», «satirico, finto avvenirista».
Nell’aggettivazione si concentrano il suo estro e la sua precisione definitoria. «Torvo ma non del tutto insensato» è il libretto di un etruscologo, «raccontato con incredibile ruditas, non senza indizio di mite demenza, produttiva di effusivo casino»: il suggerimento è che «ci vorrebbe qualcuno che mettesse in pulito i suoi barriti». «Un libro amabile, inconsueto e ragionevolmente demente» è Il terzo poliziotto di Flann O’Brian. Trova «repellente», «di rara bruttezza, di una goffa opacità moralistica» un testo teatrale di John Osborne, ma consiglia: «Pubblichiamolo», forse sottolineando così il suo dissenso da certe scelte einaudiane. Mentre invita ad accogliere un libro di Kingsley Amis, padre di Martin, definendolo «una gagliarda e ben ripiena farsa gallese, gustosa, amabilmente rissosa, assai leggibile». Perde letteralmente le staffe di fronte al «giovane arrabbiato» britannico, allora molto in auge, John Wain, che secondo lui «va puramente e semplicemente picchiato, affidato a facchini iracondi e sarcastici...». Respinge al mittente la «virtuosa varichina» di Doris Lessing, che considera «discendente degli amori ancillari di Victor Hugo», mentre ritiene «pubblicabile senza disdoro» Nadine Gordimer.
Il referente epistolare einaudiano è per lo più l’amico Guido Davico Bonino, ma qua e là compaiono Paolo Fossati, Daniele Ponchiroli, Giulio Bollati: sono loro che sommergono Manganelli di quel «tonnellaggio di carta» che finirà per angosciarlo. Col tempo, quando si «intorinava» per i famosi mercoledì, sarebbe riuscito a ringhiare con «no disgustati», anche contrapponendosi al parere possibilista di Italo Calvino. Ideatore di collane, come «La ricerca letteraria» (che diresse con Sanguineti e Davico), Manganelli si accende di entusiasmo per poche cose: per esempio, le lettere di Dylan Thomas che approva con un «sììììì!», le traduzioni e le poesie di J. Rodolfo Wilcock, caldeggia con trasporto la traduzione di un inglese « introvabile » come William Gerhardie. Si entusiasma per la progettata collana dei classici italiani che non verrà mai varata, ma su cui il pressing di Manganelli non verrà mai meno, insieme con l’auspicio di allargare l’attenzione al Tesuaro, a Marino, al Brignole, al Frugoni: «diretti progenitori della sua prosa sontuosamente manieristica», come ha osservato Davico. Titoli di una «letteratura fastosa» che poi avrebbe riproposto con maggiore fortuna per la «Fondazione Bembo», la collana di Guanda che dirigerà con Dante Isella dal 1987. Intanto, aveva tentato di mettere piede alla Mondadori, ma l’esperienza durò poco (un paio d’anni, 1970-72) e persino quel sant'uomo di Vittorio Sereni dovette arrendersi all’incomprensione, finché il trasferimento, armi e bagagli (cioè libri e consulenza) a Rizzoli placherà provvisoriamente i suoi furori. In una scheda per Adelphi, nel 1988, urlerà: «Romanzo lesbico-trotskista, molto educativo e nobilmente progressista. Al diavolo».