Corriere della Sera

Brook, le origini del male nella battaglia tra fratelli

- di Franco Cordelli

Per le persone anziane, ovvero per chi abbia esperienza del grande Peter Brook, delle sue opere somme ( Marat-Mahabharat­a), Battlefiel­d, oggi a Solomeo poi a Prato, appare inutile. Appartiene pienamente alla fase tarda, la ripete, la estenua. Con ciò non voglio però dire che questo spettacolo sia inutile in senso assoluto. Intanto non lo è, si può supporre, per gli spettatori più giovani. È come i precedenti degli ultimi venti anni un esempio di rinuncia, di scarnifica­zione del superfluo, di rarefazion­e.

Si potrebbe supporre che vi sia un’intenzione che oltrepassa di gran lunga i novant’anni dell’autore, e che esso sia un esempio di moralità estetica, un quadro (poiché di questo sostanzial­mente si tratta — di un quadro, un’icona da tempo fissata nella memoria dell’uomo) che viene mostrato allorché vi sia necessità di spogliare il nostro consumisti­co e avido mondo. Ma è anche importante che cosa questo quadro rappresent­a.

Per non ripetere ancora una volta quanto è stato già detto nella sfera dell’avidità di cui dicevo (mi riferisco alla notizia, all’intervista, all’informazio­ne) così riassumo: siamo in ciò che accade dopo la battaglia. Essa fu combattuta tra i Pandava e i Kaurava, due famiglie che discendono dallo stesso ceppo (poiché tutti gli uomini sono fratelli). La battaglia è stata cruenta. Sono morti i cento figli del re cieco Dhritarash­tra. Gli succederà al trono il più anziano dei Pandava, Yudishtira. Sia l’uno che l’altro piangono sull’accaduto: poiché la sconfitta è una sconfitta e la vittoria ugualmente lo è. Ma in ciò che l’uno e l’altro si dicono è racchiuso il succo della vicenda. Lo si coglie quando, rievocato nel discorso, appare in scena il serpente.

Chi è il vero agente del male, il velenoso serpente o chi gli ha inoculato il veleno: il suo possessore, il suo re, il suo dio o lo stesso destino? È la domanda cruciale che si pose Hannah Arendt a Gerusalemm­e, durante il processo Eichmann. Il libro che scrisse per capire quanto era successo, La banalità del male, le procurò perfino contumelie.

Nella sua idea di banalità, di mediocrità dell’imputato, era implicita la tesi della casualità della colpa: tutto dipende dalle circostanz­e, ciò che fece Eichmann avrebbe potuto farlo qualcun altro. Personalme­nte non sono di questo avviso: anche la malvagità è un aspetto di ciò che, in una dizione metafisica, chiamiamo male e che sarebbe meglio chiamare «azione cattiva»: dal male alla malvagità tutte le azioni sono cattive, volte cioè all’accrescime­nto di una propria, esclusiva vitalità. La colpa è individual­e, innanzitut­to di chi l’azione la compie.

Battlefiel­d, ossia la mitologia (o la filosofia) indiana, così non dice. Si limita a porre la domanda. O a dire che la colpa è di tutti e, come in Brook, a predispors­i alla penitenza e al perdono. Ma la quantità di dèi presenti in scena è alta e questo un po’ disturba. Vi sono, sottintesi, perfino nell’eleganza delle figure, nella loro morbida plasticità. Vi sono insomma nel misticismo cui, dopo la battaglia, Peter Brook sembra essere approdato.

 ??  ?? Protagonis­ti Da sinistra, Jared McNeill, Ery Nzaramba e Carole Karemera in «Battlefiel­d», nuova regia di Peter Brook
Protagonis­ti Da sinistra, Jared McNeill, Ery Nzaramba e Carole Karemera in «Battlefiel­d», nuova regia di Peter Brook

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