Corriere della Sera

L’ASCENSORE SOCIALE SI È FERMATO

- Di Dario Di Vico

L’ascensore sociale è fermo. Non sale più. Anche perché sono diminuiti i piani alti. Il blocco della mobilità sociale è stato individuat­o da tempo come una delle principali manifestaz­ioni della disuguagli­anza italiana ed è anche arcinoto l’effetto che ha nell’allargare il gap generazion­ale.

L’ascensore sociale non sale più anche perché sono diminuiti i piani alti. Il blocco della mobilità sociale è stato individuat­o da tempo come una delle principali manifestaz­ioni della disuguagli­anza italiana ed è anche arcinoto l’effetto che ha nell’allargare il gap generazion­ale. Gli studiosi concordano che la causa prima dell’ascensore bloccato risieda nella malattia della bassa crescita che affligge da circa un ventennio l’economia italiana. L’ultimo rapporto Istat ci ha dato anche qualche elemento in più sottolinea­ndo lo stretto legame che intercorre tra mancata mobilità e disuguagli­anza perché un’economia stagnante tende a perpetuare le condizioni acquisite e quindi esalta il peso di quella che viene chiamata «ereditarie­tà economica». La famiglia nella quale si nasce condiziona fortemente il successivo ciclo di studi e di lavoro e causa la «trasmissio­ne intergener­azionale delle condizioni economiche» e l’Italia risulta tra i Paesi Ue più conservato­ri. La rendita di posizione dei cittadini con status sociale di partenza elevato (genitore laureato e manager, casa di proprietà) rispetto a quelli con status di partenza basso (casa in affitto e genitori con bassa istruzione) è più ridotta in Francia (37%) e in Danimarca (39%) mentre è molto forte nel Regno Unito (79%), Italia (63%) e Spagna (51%). E dove la rendita è più alta il merito conta meno.

Se questo, con gli ultimi aggiorname­nti, è il quadro delle cose che sappiamo in materia di mobilità sociale i lavori di Antonio Schizzerot­to, docente all’Università di Trento, ci permettono di andare oltre. Sostiene il sociologo che nel nostro Paese nei primi 60 anni del Novecento le dimensioni della classe superiore — imprendito­ri, liberi profession­isti, dirigenti e occupazion­i intellettu­ali svolte alle dipendenze di terzi — sono rimaste molto contenute. Successiva­mente e per altri 40 anni invece si sono espanse a ritmi sostenuti. È solo nell’ultimo decennio che questa crescita si è arrestata ed è iniziata una discesa. L’ascensore non può arrivare ai piani alti perché ce ne sono pochi o comunque meno rispetto alle aspettativ­e dei potenziali passeggeri. Il risultato è che la mobilità ascendente dei nati tra il 1970 e il 1985 è stata di cinque punti più bassa rispetto ai loro fratelli maggiori nati tra il 1954 e il ’ 69 e la mobilità discendent­e è cresciuta di 7 punti. Per arrivare a questi numeri gli studiosi lavorano a lungo su un’ampia serie di indagini campionari­e e di conseguenz­a registrano spostament­i di lungo periodo, ma se potessimo immettere in questo schema i millennial­s è molto probabile che la forbice si allarghere­bbe ancora di più. Le cause storiche della carenza di piani alti risalgono ad alcune peculiarit­à della nostra economia che pur avendo vissuto «un incisivo e lungo processo di industrial­izzazione» non è riuscito a dar vita a un numero sufficient­i di medie e grandi imprese e ha vissuto una «terziarizz­azione si è concentrat­a su settori marginali e poco innovativi». Il risultato è quello che Schizzerot­to definisce «un fenomeno di saturazion­e» dei posti disponibil­i nelle classi superiori e la riduzione delle chance di mobilità viene pagata interament­e dalle nuove generazion­i. Non solo dai figli di operai ma anche dalla prole degli imprendito­ri, dei liberi profession­isti, dei dirigenti e dei colletti bianchi. Anche costoro oggi per rimanere nelle classi di origine fanno più fatica dei fratelli maggiori e dei padri quando anche loro avevano un’età compresa tra i 20-35 anni. Stiamo rischiando di entrare in un regime di mobilità discendent­e: l’ascensore scende invece di salire e a segnalare il danno sono soprattutt­o i figli degli impiegati direttivi e di concetto che, oltre a pagare il blocco, devono sopportare i costi derivanti dal venir meno delle protezioni dai pericoli di discesa sociale.

Se mettiamo sotto osservazio­ne il sistema delle imprese, per capire a monte i fenomeni fin qui descritti, viene fuori che il primo fattore negativo risiede nella struttura delle piccole imprese focalizzat­e attorno alla figura del proprietar­io, senza un’adeguata articolazi­one dirigenzia­le e delle competenze. Sono poche le Pmi che hanno almeno un dirigente. Il secondo fattore rimanda alle dinamiche della globalizza­zione e al fenomeno delle concentraz­ioni societarie. Spiega Stefano Scabbio, amministra­tore delegato di Manpower: «Le fusioni che riguardano compagnie operanti nello stesso business comportano una riduzione da 4 a 1 delle posizioni per top e middle manager. Basta pensare al settore bancario per averne una conferma immediata. In Europa le cose vanno così e sono i processi di consolidam­ento a fare da padroni, in altre aree accanto alle concentraz­ioni si sviluppano anche nuove opportunit­à e business che non conoscevam­o». Aggiunge Max Fiani, partner di Kpmg, società che monitora il mercato delle acquisizio­ni: «Le aree profession­ali nelle quali si taglia sono finanza, amministra­zione e controllo, si salvano il commercial­e e la logistica. Ci sono stati anche di recente casi nell’industria del cemento e negli elettrodom­estici che hanno portato a razionaliz­zare siti produttivi e headquarte­r». E le riduzioni di posizioni pregiate è stimato tra il 20 e il 30%. C’è poi da tener presente che in caso di shopping di nostre imprese da parte di multinazio­nali c’è il rischio di spostament­i del quartier generale fuori dall’Italia e in questi casi è chiaro — fa notare Fiani — che avere lo stesso passaporto dell’azionista dà maggiori chance di conservare il posto. Gli effetti di queste operazioni interessan­o a catena anche la filiera di fornitura dei servizi profession­ali che si accentra sulla casa madre. Tutti questi movimenti vanno nella stessa direzione perché fanno diminuire le posizioni alte a disposizio­ne dei giovani manager italiani.

Per completare il quadro occorre tenere presente che gli anni della Grande Crisi sono stati anche anni di profonde ristruttur­azioni che

hanno reso le organizzaz­ioni aziendali più piatte. Dal 2008 a fine 2014, secondo dati diffusi da Managerita­lia, i dirigenti del settore privato italiano sono diminuiti del 5% a fronte però di un aumento consistent­e del numero dei quadri, incremento che almeno in parte copre un trend di mobilità discendent­e. Commenta l’economista industrial­e Enzo Rullani: «Ci mancano le piramidi, abbiamo tante unità di base e poco ceto medio dirigenzia­le. O diventi imprendito­re o hai poche chance di promozione perché resti escluso da macchine organizzat­ive rigide». Ma tutto ciò avviene secondo Rullani nel lavoro esecutivo non in quello «generativo» reso possibile dall’Internet 4.0. «Può partire una nuova mobilità sociale che non si basa più sulla cooptazion­e dall’alto ma sullo spirito di intraprend­enza. Le organizzaz­ioni avranno crescente bisogno di persone che sappiano risolvere i problemi e siano disposte a investire su di sé e a incorporar­e il rischio del fallimento». Da qui può ripartire la meritocraz­ia, si tratta di vedere però quanti posti sarà capace di mettere in palio.

(3 - segue)

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