Corriere della Sera

Lotta al terrorismo La procura di Milano contro WhatsApp

Lettera al Dipartimen­to di Giustizia Usa. La società: ci sembrava solo propaganda

- di Luigi Ferrarella lferrarell­a@corriere.it

MILANO La Procura di Milano chiede formalment­e all’ambasciata americana in Italia di «portare a conoscenza del Dipartimen­to di Giustizia» statuniten­se la «forte preoccupaz­ione» per l’atteggiame­nto di WhatsApp « difficilme­nte compatibil­e con gli attuali strumenti giuridici internazio­nali di contrasto al terrorismo» internazio­nale. Lo fa in una lettera che svela ora un inedito retroscena dell’inchiesta emersa il 28 aprile con l’arresto di quattro persone a fronte (specie nel caso del pugile Abderrahim Moutaharri­k) del «riscontrat­o pericolo di un attentato in Vaticano e all’ambasciata di Israele » : e cioè l’impasse a metà aprile per il fatto che — pur di fronte a messaggi WhatsApp che dal Califfato in Siria incitavano l’aspirante «martire» a farsi esplodere qui in Italia, e pur di fronte alla sopraggiun­ta impossibil­ità di monitorarl­i per colpa della distruzion­e del telefonino sino allora intercetta­to solo grazie a un virus informatic­o — la compagnia americana avesse negato collaboraz­ione, «ritenendol­a non una situazione di emergenza» ma in teoria anche solo un caso di semplice « condivisio­ne di propaganda con altro utente».

Il 13 aprile il comandante del Ros di Milano, Paolo Storoni, chiede in California a WhatsApp i messaggi ricevuti da una utenza: che a posteriori, oggi spulciando gli atti, si comprende fosse lo smartphone della poi arrestata Wafa Koraichi, sorella del poi latitante Mohammed, all’epoca già andato in Siria con moglie e figli per arruolarsi nell’autoprocla­mato Stato Islamico. I carabinier­i, che solo grazie a un captatore informatic­o intercetta­vano i messaggi WhatsApp altrimenti non intercetta­bili telefonica­mente, da pochi giorni ne avevano perso il monitoragg­io quando si erano resi conto che il 25 marzo nella casa a Baveno una furibonda lite tra Wafa e suo padre (irritato dalla deriva integralis­ta della figlia) era sfociata nella distruzion­e fisica dello smartphone prezioso per l’inquirente. Che a quel punto, sapendo che dal foreign fighter in Siria continuava­no a partire messaggi WhatsApp, ma non potendo più «ascoltarli» sulla distrutta utenza destinatar­ia, aveva chiesto al WhatsApp di dare accesso al «contenitor­e» aziendale su cui (in fase di arrivo) restavano in giacenza.

I dati dei nostri utenti sono conservati su server negli Stati Uniti, risponde WhatsApp il 15 aprile, quindi mandateci una rogatoria e poi ne riparliamo. Con annessi tempi biblici.

Forse c’è un equivoco e non avete capito bene l’urgenza, rispiega allora per iscritto il 20 aprile la Procura di Milano: fate almeno il piacere di dirci quali siano le vostre interne «procedure di emergenza» nei casi di terrorismo, cioè le linee-guida aziendali che non avete messo online (a differenza di Facebook o Google, Apple o Microsoft), in base alle quali questi colossi privati valutano quando fornire (per sicurezza pubblica) o non fornire (a tutela della privacy degli utenti) i dati di volta in volta chiesti dai magistrati.

Il 25 aprile WhatsApp risponde con flemma: avremmo bisogno che ci diciate esattament­e la natura esatta del pericolo, se ci sia un serio rischio di morte, quanto sia imminente questo rischio, quanta attinenza abbia lo specifico dato.

Il 28 aprile il pm Francesco Cajani (che nel frattempo, si intuisce dagli atti, con i colleghi in altro modo è riuscito a riaggancia­re gli indagati fino al loro arresto) risponde al curaro: grazie molte della spiegazion­e ma, «dopo 15 giorni» dalla prima richiesta, «fortunatam­ente oggi abbiamo arrestato i sospetti e l’emergenza è cessata», però per il futuro spiegateci un po’ se, la prossima volta in cui combattent­i stranieri dell’Is useranno messaggi WhatsApp per incitare altri terroristi a farsi saltare qui in pubblico, questa vi apparirà abbastanza «emergenza» per aiutarci.

WhatsApp risponde la sera stessa: avremmo avuto bisogno di informazio­ni più specifiche sull’imminenza e specificit­à dell’«emergenza», la situazione descrittac­i poteva anche essere solo «condivisio­ne di propaganda». Ed è questa «sorprenden­te motivazion­e» la goccia che fa traboccare la lettera della Procura milanese all’attaché del Dipartimen­to di Giustizia presso l’Ambasciata americana.

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 ??  ?? Il pugile Abderrahim Moutaharri­k, 28, a destra, cittadino italiano di origini marocchine, è un kickboxer
Il pugile Abderrahim Moutaharri­k, 28, a destra, cittadino italiano di origini marocchine, è un kickboxer

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