Armeni, schiaffo tedesco a Erdogan
Il Bundestag, con voto quasi unanime, riconosce il genocidio Ankara richiama l’ambasciatore. A rischio il patto sui profughi
Erdogan non può nemmeno sognarsi di impedire un dibattito in un Parlamento europeo: questo è il messaggio più forte che il Bundestag tedesco ha mandato ieri al presidente della Turchia. Attraverso un voto quasi unanime a favore di una mozione nella quale il massacro degli armeni — tra 800 mila e un milione e mezzo di morti nel 1915-1916 a opera dell’Impero Ottomano — viene definito «genocidio». Come aveva abbondantemente avvertito da mesi, Ankara ha reagito all’uso del termine, ha richiamato il proprio ambasciatore da Berlino Assente la Merkel La leader ha detto di sperare che il caso non danneggi l’amicizia tra i due Paesi
e ha convocato un rappresentante diplomatico tedesco per protestare. E’ una crisi bilaterale annunciata; ma non necessariamente drammatica.
Era da tempo che il Parlamento tedesco voleva discutere di quel massacro. Un po’ perché altri Parlamenti lo hanno fatto e un po’ perché i deputati ritenevano importante ammettere, durante il dibattito, anche le responsabilità della Germania, che durante la Prima guerra mondiale era alleata dei turchi, sapeva quello che stava succedendo e non è intervenuta (autocritica che ieri c’è stata). Per non irritare Ankara e la numerosa comunità turca in Germania, il governo aveva però sempre rinviato la discussione. Alla fine, ha dovuto convocarla proprio nel momento in cui i rapporti tra Angela Merkel e Recep Tayyp Erdogan sono diventati, nella loro difficoltà, strategici in ragione dell’accordo tra Turchia e Ue sui rifugiati.
Secondo alcuni una sventura diplomatica che potrebbe mettere in discussione il patto sui profughi. Forse, in realtà, un colpo di fortuna: avere impedito all’uomo forte di Ankara di bloccare la libera volontà del Bundestag non solo gli fa capire che il suo autoritarismo e le sue pretese hanno chiari limiti non valicabili; mette anche alla prova l’aggressività che mostra quando è sottoposto alla satira o contraddetto nelle sue richieste, consente di capire fino a dove è disposto ad andare nella reazione a quella che dipinge come un’offesa alla sua Nazione.
Prevedere cosa può produrre l’orgoglio personale di Erdogan è impossibile: nei giorni scorsi, aveva telefonato alla cancelliera Merkel per avvertirla che, se si fosse votata la mozione, i rapporti bilaterali, persino in campo militare, si sarebbero incrinati. E ieri ha detto che il richiamo dell’ambasciatore è «solo il primo passo». Il suo ministro della Giustizia ha sostenuto, con parole di fuoco, che la Germania non ha diritto di parlare di genocidio vista la sua storia. Probabilmente, però, la crisi sarà limitata: i due Paesi hanno interessi comuni forti, fanno parte della Nato e in più Ankara, alle prese con Siria, Isis e Putin, non può permettersi di isolarsi più di quanto già lo sia.
E nemmeno il governo di Berlino, naturalmente, vuole che la crisi si radicalizzi. Frau Merkel, ieri, non era al Bundestag. E nemmeno c’erano il vicecancelliere Sigmar Gabriel, il titolare degli Esteri Frank-Walter Steinmeier e altri ministri: tutti con precedenti impegni. Non bello; ma indicativo del non volere alzare i toni della disputa su una vicenda importante
ma di un secolo fa. La cancelliera ha anche detto di sperare che la vicenda non infici l’amicizia tra i due Paesi.
Nel merito, i turchi sostengono che parlare di genocidio è una falsificazione storica. Non negano i massacri, anche se limitano il numero delle vittime. Dicono però che usare per le vicende del 1915-1916 lo stesso termine che si usa per l’Olocausto degli ebrei è insostenibile e mette una macchia ingiusta sulla Turchia. Opinione non del tutto isolata: famoso è il caso del grande storico Bernard Lewis che fu multato (un franco) in Francia dopo un processo per negazionismo del genocidio armeno: sostiene che le barbarie non furono preordinate a tavolino e finalizzate a sterminare gli armeni ma avvennero come reazione spropositata alla loro ribellione. Il Bundesbank la pensa diversamente. E anche questo fa discutere, al di là di Erdogan: non a tutti piace che la politica decida di scrivere una storia di Stato invece di lasciare il compito agli intellettuali e agli esperti.