In due anni il premier ha messo due volte a repentaglio il suo governo con voti che si potevano, se non evitare, gestire meglio
Per un Paese che non fa parte di Schengen — ed è un’isola da sempre ben controllata — rinunciare in via di principio all’apporto di una immigrazione da cui dipende molto del suo benessere potrebbe sembrare singolare. I toni si fanno a volte surreali. Un autorevole campione della Brexit, già membro di vari governi conservatori, ha sostenuto in un recente dibattito che — diversamente dalla Germania, per cui l’Europa ha rappresentato l’occasione imperdibile di una palingenesi democratica dopo l’orrore del nazismo — la Gran Bretagna «che la guerra, invece, l’ha vinta» non ha avuto bisogno di alcuna rilegittimazione e tantomeno ha oggi bisogno dell’Europa. È facile sorridere di simili considerazioni, ma esse trovano un ascolto maggiore di quanto molti, in altri Paesi, immaginano: su di esse ha fatto leva con successo la campagna della Brexit per riportare sul filo di lana una competizione che all’inizio la dava facilmente soccombente.
Il remain è rimasto impigliato in questa logica, da cui fa fatica a districarsi. L’Ue è in primo luogo un progetto politico; i nodi dell’economia e dell’immigrazione dovrebbero essere visti così, operando le mediazioni del caso, ma parlare di «progetto politico» a chi ha sempre rifiutato di vederla in questa chiave, equivarrebbe a una sconfitta certa. Industria, finanza, università si sono espresse a grande maggioranza per il remain, con argomenti cui si è anche riferito il governo per la campagna guidata dal Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne. Quello che obiettivamente dovrebbe essere un punto di forza, potrebbe però paradossalmente rivelarsi di debolezza: gli appoggi vengono tutti o quasi da quell’establishment di cui la «pancia» diffida, mentre riscopre la seduzione trasversale della contrapposizione di classe.
La campagna della Brexit ha avuto buon gioco nel sostenere che il remain è espressione di interessi assai lontani dalla massa della popolazione, chiamata a sopportare per l’ennesima volta in silenzio l’ingordigia rapace delle classi dominanti. I suoi sostenitori sentono il fiato sul collo dell’avversario e hanno capito — forse non troppo tardi — che devono mettere la sordina ad argomenti razionali e puntare sull’avversione della «pancia» del Paese per i salti nel buio, per indurla a votare contro il cambiamento. È un gioco di paure incrociate che ha funzionato in extremis per il referendum scozzese e potrebbe farlo di nuovo. Ma non è detto.
Da qui al 23 giugno la partita si giocherà sulle percezioni, prima che sui fatti, e l’incertezza è reale. I bookmakers, che in Gran Bretagna spesso ci colgono più dei sondaggi, continuano a dare la Brexit perdente e c’è da sperare. Resta il fatto che, nel giro di due anni, David Cameron ha messo due volte a repentaglio il suo governo, con referendum che si potevano, se non evitare, gestire meglio; prima sulla Scozia e ora sull’Europa. Comunque vadano le cose, il suo futuro politico appare tutt’altro che brillante.