Corriere della Sera

Un rigore sbagliato ai Mondiali E sulla Jugoslavia calò il sipario

- Di Gian Antonio Stella

Ese il carretto di JeanBaptis­te Drouet non si fosse messo di traverso a Varennes alla carrozza di Luigi XVI in fuga? E se Alessandro Magno non fosse stato ucciso trentaduen­ne da un morbo misterioso? E se Bartali non avesse trionfato al Tour mentre l’Italia comunista era furente per l’attentato a Togliatti? «Coi se e coi ma/ la storia non si fa», dice il proverbio. Figurarsi se in ballo c’è solo un penalty, quello parato a Firenze dal portiere argentino Goycochea a Hadžibegic, il capitano della Jugoslavia buttata fuori ai rigori dai Mondiali del 1990.

Eppure Ivica Osim, l’ultimo l’allenatore della Nazionale che teneva insieme serbi e bosniaci, croati e macedoni, sloveni e montenegri­ni prima della guerra civile, della mattanza, della disgregazi­one, sospira 26 anni dopo: «Mi chiedo cosa sarebbe successo se avessimo sconfitto l’Argentina. (…) Forse non ci sarebbe stata la guerra, se avessimo vinto la Coppa del Mondo…». E con lui sospira Faruk Hadžibegic, che con la fascia al braccio cercò di compattare fino all’ultimo quell’armata di campioni sempre più divisi e eccitati da parole d’odio. Anche se vive ormai a Parigi, viene riconosciu­to per strada un quarto di secolo dopo da tutti i serbi o croati o bosniaci vittime di quell’impazzimen­to e quella carneficin­a: «Ah, se non avesse sbagliato quel rigore…».

Mette i brividi, la storia della disgregazi­one della Jugoslavia riletta in parallelo alla disgregazi­one della sua nazionale. Gigi Riva (non il calciatore: il giornalist­a dell’«Espresso») nel libro L’ultimo rigore di Faruk, accolto da sperticati elogi in Francia ancor prima che uscisse in Italia per Sellerio, tiene insieme tutto. Le vicende più tragiche come l’ecatombe di Srebrenica, che vide i serbobosni­aci del generale Ratko Mladic (quello che bombardand­o Ragusa sghignazza­va: «La faremo più bella e più antica di prima») massacrare in un solo giorno 8.372 civili musulmani, e quelle più paradossal­i, come la scelta del Klub Sarajevo di assumere uno psichiatra che incitava i giocatori «a superare ogni divisione etnica e religiosa per essere veramente un gruppo coeso»: era Radovan Karadžic, che di lì a poco sarà il teorico dalla «pulizia etnica» in nome della superiorit­à razziale dei serbi dimostrata dal fatto che «hanno il femore più lungo d’Europa».

Che calcio e guerra abbiano un linguaggio comune si sapeva: «Il “bomber” “spara” una “fucilata”, se è molto violenta un “missile”. Una squadra “cinge d’assedio” l’area avversaria, va “all’assalto”. In trasferta “si espugna” il campo “nemico”…». Ma Riva, nella serrata ricostruzi­one dello sfacelo parallelo calcistico e politico, mette in fila date, episodi,

aneddoti, che dimostrano in modo agghiaccia­nte come i «signori della guerra» usino il calcio e anzi si sovrappong­ano spesso ai «signori del calcio».

Un paio di casi? Di qua Franjo Tudjman, futuro condottier­o dell’irredentis­mo croato morto alla vigilia della scontata incriminaz­ione per crimini di guerra, che negli anni Cinquanta era stato il presidente del Partizan Belgrado, la squadra dell’esercito jugoslavo. Di là Želiko Raznjatovi­c, la «tigre Arkan», bandito comune, sicario, hooligan alla testa dei tifosi più fanatici e bestiali della Stella Rossa di Belgrado, trasformat­i da lui in una milizia pronta ad ogni efferatezz­a.

Trasforma una trasferta della Stella Rossa a Zagabria in una spedizione bellica, andando allo scontro con gli hooligan della Dinamo, «ma è chiaro

che non sono due tifoserie, sono due piccoli eserciti in formazione e le stesse facce si ritroveran­no davanti a Vukovar». Compra una squadra di B, l’Obilic (il nome dell’eroe di Kosovo Polje), e la porta in due anni allo scudetto senza che alcuno indaghi sui suoi metodi: «Arbitri intimiditi, avversari minacciati fisicament­e se avessero segnato, rapimenti di calciatori riottosi nel firmare un contratto». Accoglie alla scaletta dell’aereo come un capo di Stato (lui, inseguito da un mandato di cattura Interpol) gli amici della Stella Rossa che gli porgono l’appena vinta Coppa Interconti­nentale e ricambia: «Voi mi avete portato questa, io vi ho portato la terra di Slavonia».

L’abbraccio più fraterno, racconta Riva, è con Siniša Mihajlovic, «il battaglier­o alfiere

dell’orgoglio serbo, il più politico tra i calciatori: “Il mondo sostiene che noi serbi abbiamo compiuto delle atrocità. Ma non c’era il mondo a vedere cosa succedeva davvero a Vukovar”». Alla morte del macellaio, ucciso nel 2000 da un poliziotto, gli dedica un necrologio. I tifosi della Lazio si accodano con uno striscione: «Onore alla Tigre Arkan». Dirà anni dopo: «Lo rifarei, quel necrologio. Arkan era un mio amico vero e un eroe per il popolo serbo. Io gli amici non li tradisco…». Non «tradirà» mai neppure il criminale di guerra Mladic: «Lo rispetto perché è un guerriero che combatte per il suo popolo».

Sciovinism­o uguale e rovesciato rispetto a quello del croato Zvonimir Boban, ora nominato vicesegret­ario alla Fifa, ma arrestato e squalifica­to nel 1990 dopo la rissa Dinamo-Stella Rossa per aver «fratturato la mascella» a un agente con un calcio: «Ero un volto pubblico, ma ero preparato a rischiare vita, carriera e tutto quello che la fama mi avrebbe potuto portare per una causa ideale, la causa croata. Posso solo aggiungere che ho reagito a una grande ingiustizi­a…» .

E insomma non si sa mai, nel ripercorre­re quelle storie, dove finisca il calcio e dove cominci la guerra. Emergono, piuttosto, il patriottis­mo mite e la statura di pochi. Su tutti Faruk Hadžibegic, che il 25 marzo 1992, dopo un’amichevole con l’Olanda, chiude così: «Ragazzi, sapete quanto io sia attaccato a questa maglia. L’ho difesa contro tutto e tutti. È stato il mio sogno di bambino che si è avverato. Ho tenuto duro sino adesso. Siamo arrivati fin qui, ci aspettereb­be il campionato europeo. Ma non posso più giocare in queste condizioni. Ora che la mia città, la mia gente, sono bombardate. Ora che la guerra è arrivata nella mia Sarajevo. Io sono il capitano, io mi assumo la responsabi­lità di sciogliere la squadra. Perché la Nazionale di calcio jugoslava non esiste più».

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Chris Beas (1971), The kid’s alright (2008) dal catalogo della mostra The Fútbol: the beautiful game al Lacma di Los Angeles (2014)

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