Corriere della Sera

Perché è finita la stagione dei grandi sindaci

- Di Massimo Franco

L’aspetto più vistoso del voto amministra­tivo di domani è lo squilibrio tra uno scontro ad altissima tensione tra i partiti, e la freddezza che si avverte nell’elettorato.

Non significa automatica­mente che ci sarà un massiccio astensioni­smo, sebbene il pericolo sia reale. È che in realtà si è parlato poco delle grandi città da governare: Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, per citarne alcune. La dimensione nazionale ha schiacciat­o quella locale. La stessa scelta dei candidati a sindaco ha seguito in prevalenza, almeno, dinamiche «romane» più che cittadine. I profili degli aspiranti «primi cittadini» e «prime cittadine» riflettono e esasperano la fine del ciclo dei «grandi sindaci».

Probabilme­nte era finito da tempo, come la Seconda Repubblica. Nel 1993, lo scontro per il Campidogli­o tra Francesco Rutelli e Gianfranco Fini fu il laboratori­o e la vetrina di una fase che sarebbe durata oltre un quindicenn­io. Segnata dal sistema maggiorita­rio; dall’elezione diretta; e da un meccanismo di selezione della nomenklatu­ra politica che portava poi naturalmen­te quei candidati ad affacciars­i legittimam­ente sul palcosceni­co della politica nazionale: com’è accaduto per Rutelli e Fini, al pari di Leoluca Orlando dopo la sua prima giunta a Palermo, o a Massimo Cacciari a Venezia, o ancora Enzo Bianco a Catania; o lo stesso Antonio Bassolino a Napoli.

Oggi, invece, si fatica a vedere negli enti locali un piedistall­o, tranne in alcuni casi: ad esempio in quello di Luigi de Magistris, sindaco uscente di Napoli, che vuole usare una rielezione per guidare la sinistra antirenzia­na. Forse perché con la crisi economica sono diventati centri di spesa così voraci e spreconi che alla fine hanno subito tagli di fondi consistent­i. Da trampolini per il «salto» verso il Parlamento nazionale e i posti di governo, sono diventati retrovie di una classe politica incapace di evitare un gioco al ribasso; e trincee di prima linea dove si misurano tutti i rischi di quella che è stata chiamata «democrazia senza popolo»: la deriva verso percentual­i di votanti che si assottigli­ano progressiv­amente e in maniera inesorabil­e, indebolend­o l’investitur­a di chi viene eletto.

Il fatto che nella riforma del Senato sottoposta a referendum confermati­vo in ottobre il ruolo di alcuni di loro sarà quello di «parlamenta­ri», anche se non eletti direttamen­te, non cambia la sostanza. Anzi, sull’onda montante della contestazi­one al sistema dei partiti viene insinuato il dubbio che la loro scelta servirà solo a proteggerl­i dalle inchieste della magistratu­ra: accusa sbrigativa e strumental­e, che finisce tuttavia per additare un problema reale di competenza e di trasparenz­a nella gestione dei Comuni e delle Regioni.

D’altronde, ci sarà una ragione se rispetto al passato le forze politiche hanno faticato a trovare candidatur­e di vero richiamo. Un tempo, l’ambizione di diventare sindaci di una grande città spingeva donne e uomini del potere nazionale a rinunciare a posti di ministro e sottosegre­tario; o anche a prestigios­e posizioni accademich­e o nell’industria. I vertici dei partiti si sono dovuti inchinare ai «no» di chi non voleva correre per quegli incarichi, convinto che non ne valesse la pena. A ben vedere, anche chi ha accettato di farlo in alcune realtà, si è tenuto stretto il posto di deputato o di deputata: un paracadute contro la bocciatura.

A spaventare non sono soltanto le indagini, che hanno rivelato il saccheggio di Roma in modo eclatante, e mostrato realtà degradate un po’ dovunque, finendo per accreditar­e il malaffare come cifra della politica a livello locale. L’altro fenomeno è un trasformis­mo che irrita l’elettorato quasi quanto la corruzione, perché è vissuto come tradimento del mandato popolare. E soprattutt­o, al fondo si indovina la crisi dell’istituzion­e locale in quanto tale, segnata dagli scandali e dalla cattiva amministra­zione. Insomma, se va registrato un cambio di passo, è in una direzione assai controvers­a, e tutta da decifrare nei suoi sviluppi.

Il connotato più vistoso di quella che semplicist­icamente viene chiamata Terza Repubblica è la frammentaz­ione. Significa una scomposizi­one progressiv­a dei vecchi gusci partitici e degli interessi che li amalgamava­no; mancanza di una visione unificante del Paese; conflittua­lità generalizz­ata ma senza sbocchi; e fuga verso microident­ità che impediscon­o di guardare al bene comune. Di questa involuzion­e, le Amministra­tive sono uno specchio fedele, perché riflettono quanto succede al «piano terra» della politica e della vita quotidiana.

Benché rassicuran­te, sarebbe miope pensare a una società civile virtuosa, contrappos­ta a partiti «brutti e sporchi». Piaccia o no, le nomenklatu­re partitiche sono proiezioni di pezzi consistent­i della realtà sociale, soprattutt­o nei difetti. Dunque, si va verso scelte a bassissima intensità, quasi per autodifesa rispetto ai toni inutilment­e esasperati della politica. Eppure si tratta di scelte che pesano, da compiere nonostante le logiche mediocri e i metodi respingent­i con i quali vengono chieste.

I candidati La stessa scelta dei candidati ha seguito logiche più «romane» che cittadine Il gioco al ribasso I municipi retrovie di una classe politica incapace di evitare un gioco al ribasso Lo squilibrio Lo squilibrio di uno scontro ad alta tensione tra i partiti mentre gli elettori sono freddi

 ?? (Omniroma) ?? Virginia Raggi e Alessandro Di Battista (M5S) sul palco di piazza del Popolo a Roma
(Omniroma) Virginia Raggi e Alessandro Di Battista (M5S) sul palco di piazza del Popolo a Roma
 ?? Ansa) ?? Alfio Marchini, candidato a Roma, con il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi
(
Ansa) Alfio Marchini, candidato a Roma, con il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi (

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy