IL BRASILE DEI DUE PRESIDENTI E DEI MINISTRI CHE SE NE VANNO
Oggi in Brasile ci sono due presidenti. Il primo, detto « in esercizio» è Michel Temer, mentre la seconda, «allontanata» è Dilma Rousseff. Questo perché il processo di impeachment non si è ancora concluso e l’orgogliosa presidenta non ha voluto gettare la spugna prima del verdetto definitivo. L’impressione però è che di leader non ce ne sia nemmeno uno. Il governo Temer è nato debole. L’ex vice di Dilma («traditore», «golpista», nelle parole di lei) ha cambiato maggioranza, politica economica, tutti i manager delle società pubbliche e molte altre poltrone rilevanti. Sogna di fare, nell’interim, riforme che in Brasile si sognano da decenni, come quella della previdenza. In più ha gli stessi problemi del governo precedente: è inseguito dai giudici anticorruzione dell’operazione Lava Jato, la Mani Pulite brasiliana. Due ministri sono caduti dopo un paio di settimane, a causa di intercettazioni di collaboratori di giustizia finite sui giornali. Uno di loro, Fabiano Silveira, era il titolare della Trasparenza, cioè anticorruzione: nelle telefonate si occupava piuttosto di come fermare i giudici che ronzano attorno al suo partito.
La vicenda rischia un finale ancora più surreale. Il voto decisivo del Senato sull’impeachment può cadere a cavallo dell' Olimpiade di Rio. Due terzi dei senatori sono necessari affinché la Rousseff sia definitivamente estromessa, e non è affatto sicuro che ciò accada. Anzi. Se la sinistra riuscisse a spingere in là il verdetto, e poi vincerlo, si potrebbe arrivare ad una situazione paradossale: Temer aprirebbe i Giochi e Dilma li andrebbe a chiudere due settimane dopo. Se le due parti in questa guerra si mettessero d’accordo almeno per evitare questa pessima figura, sarebbe meglio per tutti loro, e soprattutto per il Brasile.