Perché al cinema ci piacciono le storie senza il lieto fine
i che cosa parliamo quando parliamo di film d’amore? Nonostante la promozione oleografica Tra cielo e terra, il film indiano di Neeraj Ghaywan (il titolo originario è Masaan, ma sareste andati a vedere Crematorio?) ora sugli schermi italiani, non è affatto romantico e consolatorio. È la doppia storia di due (quattro) ragazzi di Benares (Varanasi) incastrati tra cellulari e ghat, ossia tra tecnologia e tradizione, in un complicato tentativo di seguire le proprie aspirazioni e desideri e, al tempo stesso, di non deludere i genitori. L’esito, come raccontiamo nell’inchiesta Sesso e amore — che potete leggere online all’indirizzo corriere.it/sessoeamore —è pessimo. Inevitabilmente. Ce l’aveva spiegato 500 anni fa Shakespeare: innamorarsi di chi non si può frequentare per motivi sociali e familiari non porta bene. Giulietta docet. E Julieta (di Pedro Almodóvar) ribadisce che in caso di sopravvivenza non è neanche facile ricucire i pezzi tra madre e figlia. A dirla tutta non porta grandi vantaggi neanche innamorarsi di chi si caccia in enormi guai politici: in Colonia Dignitad l’intrepida Lena (Emma Watson) rinuncia alla libertà e rischia la vita per salvare il suo amato Daniel (Daniel Brühl). Storia (quasi) vera in cui l’amore è l’ultimo dei «vizi», ma è fondamentale. E dunque torniamo alla domanda iniziale: perché ci piacciono film d’amore in cui l’amore è tormentato, schiacciato, deviato, letale? Perché queste sono le regole eterne delle storie che ci seducono? O perché in fondo ci vergogniamo un po’ di sospirare davanti a storie che, per quanto tormentate, lasciano intravedere il lieto fine? A chi verrebbe mai in mente, oggi di rivedere Amore senza fine di Franco Zeffirelli? Però, forse, in una serata da Bridget Jones senescente, rivedremmo I ponti di Madison County (Meryl Streep e Clint Eastwood). In fondo, sempre di ceneri di amati (o d’amore), come in Masaan, si finisce col parlare.