Corriere della Sera

Il lavoro dei magistrati

-

Mi riferisco all’articolo di Pierluigi Battista ( Corriere, 30 maggio), dove si richiamano le consideraz­ioni di Piercamill­o Davigo sul superlavor­o dei magistrati italiani, che lavorerebb­ero molto di più dei loro colleghi «sparsi in tutti gli angoli del mondo». In realtà, ciò è vero quantomeno per l’Europa: basta andare su Internet per verificare che in Europa i magistrati italiani sono quelli che lavorano di più. Battista lo spiega anche con il protagonis­mo di cui sarebbero affetti i nostri magistrati, che, pur di apparire sui media, farebbero un largo uso dell’azione penale. Casi di protagonis­mo certamente non mancano, ma non penso che possano considerar­si la prevalente causa di un fenomeno così maestoso quale il giustizial­ismo che sommerge l’Italia nel mare dei processi ingovernab­ili. In realtà vi è un problema di sistema: abbiamo un codice di procedura penale che non è né inquisitor­io né accusatori­o, ma solo un miscuglio di istituti fra loro incompatib­ili che

propongono l’esercizio dell’azione penale come un comodo contenitor­e che risolve le interpreta­zioni impossibil­i. Giusto per segnalare un passaggio del codice di procedura che si presenta incompatib­ile con la certezza del diritto (e peraltro fonte di giustizial­ismo), ricordo il principio del «Libero convincime­nto del giudice», nato con la Rivoluzion­e francese avverso l’assolutism­o del monarca, e tuttora in uso da noi! Il principio riguardere­bbe i giudici, ma una proiezione culturale dominante lo ha introdotto anche nel pensiero inquisitiv­o. Non è costituzio­nalizzato, né previsto da norme codicistic­he e peraltro la Consulta, con la sentenza n. 255 del 1992, ha interpreta­to il contraddit­torio come una garanzia tale da non dover ostacolare, ma anzi favorire la ricerca della verità. In particolar­e, si osservava che il giudice per diritto vivente non è vincolato dai parametri di una vera e propria prova legale, potendo interpreta­re le prove che può acquisire indipenden­temente dall’iniziativa delle parti. In altre parole, si è affermata la superiorit­à della verità materiale sulla verità processual­e. In un simile sistema, può accadere che il verdetto sia determinat­o, oltre che dalle prove, soprattutt­o dal modo di pensare

dei giudici. Non è detto che avvenga, ma il solo fatto che possa avvenire è di per sé un vizio. Il libero convincime­nto ha come suo limite l’arbitrio, che peraltro è ben difficile da decifrare nel comportame­nto di un giudice. Altro limite può trovarsi nella normativa sui «pentiti», le cui propalazio­ni richiedono riscontri, ma sulla valutazion­e di questi torna la libertà del giudicare. Il noto giurista Massimo Nobili ha pubblicato un libro in cui venivano elencati i numerosi errori provocati da questo principio, il quale introduce nella giurisdizi­one un tassello etico che però nuoce alla certezza del diritto, potendo costituire una insidiosa causa di errore per il giudice influenzat­o dalle proprie idee. Nel nostro schema processual­e non esistono prove privilegia­te, mancando una scala predetermi­nata dei valori probatori. Sicché, il principio di cui parliamo lascia alle prospettiv­e e alle intuizioni del giudice uno spazio così eccessivo da rendere possibile la condanna di un innocente o l’assoluzion­e di un colpevole; il lungo calvario del non colpevole indagato che saprà dopo anni di essere innocente e la beffa del colpevole che aspetta tranquillo la prescrizio­ne.

Massimo Krogh,

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy