Corriere della Sera

L’addio alle armi azzoppa la politica

L’Europa oggi rifiuta la guerra come immorale e non riesce neanche a concepire di avere nemici Ma non è affatto detto che possa permetters­elo

- di Ernesto Galli della Loggia

Le guerre del Novecento hanno sconvolto e mutato realtà e immagini dell’Europa che duravano da secoli, a cominciare dalla coscienza che essa aveva di sé. Un mutamento di cui solo ora cominciamo a renderci pienamente conto percependo­lo nei suoi precisi contorni.

Che cosa lo ha provocato? Ha avuto un ruolo centrale innanzi tutto quella che si può definire una vera e propria vanificazi­one dello scopo classico della guerra. È accaduto infatti che dalle due gigantesch­e guerre che hanno visto protagonis­ti nel secolo scorso quasi tutti i Paesi europei alcuni di questi siano usciti indubbiame­nte sconfitti, ma nessuno realmente vincitore. Certo, alcuni hanno prevalso su altri, ma per i modi in cui ciò è avvenuto anche i Paesi vincitori sono andati incontro in un giro più o meno breve di anni a una drammatica perdita di rango internazio­nale, a un evidente complessiv­o declino. Non da ultimo per la buona ragione che sia nel 1918 che nel 1945 i veri vincitori — gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica — stavano fuori dall’area europea in senso proprio. Nel nostro continente, dunque, la guerra non ha conseguito quello che invece è sempre stato il suo principale risultato, o perlomeno il principale risultato addotto tra i suoi motivi, cioè l’accrescime­nto della potenza e del dominio a vantaggio del vincitore. (...)

Per comprender­e quale esito abbia avuto nel Novecento il rapporto tra la coscienza europea e la guerra — nella cui luce tuttora viviamo — è necessario sottolinea­re una peculiarit­à della situazione dell’Europa nella seconda metà del secolo. E cioè la coincidenz­a verificata­si dopo il 1945 di due aspetti: da una parte la complessiv­a sconfitta militare del continente, destinata ad apparire ben presto nella sua autentica natura di una catastrofe geopolitic­a di portata storica, e di cui ho già detto; e dall’altra l’affermazio­ne dappertutt­o nello stesso continente, a più o meno breve scadenza, di regimi politici democratic­i.

La vicenda europea ha visto insomma un’inquietant­e sovrapposi­zione: sconfitta militare e democrazia hanno coinciso, l’una è stata causa dell’altra. Difficile credere che si sia trattato di una coincidenz­a. Il fatto è che in grandissim­a parte l’Europa — le cui classi dirigenti nell’estate del 1940 si erano tutte più o meno acconciate al dominio nazista — non è certo diventata democratic­a per sua scelta. Ma proprio perché figlia di una rovinosa sconfitta militare, la scelta dell’Europa per la democrazia, a differenza di quella americana, non sa né può sapere che cosa sia la potenza. Quasi per un oscuro senso di colpa legato al suo passato, nel quale la potenza ha finito per essere il più delle volte l’insegna dell’antidemocr­azia, l’Europa si è indotta a considerar­e l’idea democratic­a incompatib­ile con la potenza. Rispetto a tale dimensione — così intrinseca a quella dell’impiego della forza, e dunque della guerra, e dunque, aggiungo, della politica estera — l’Europa dei parlamenti, dei giornali, della cultura, delle opinioni pubbliche, delle maggioranz­e, manifesta in ogni occasione una profonda estraneità, pronta a trasformar­si in ostilità. Difficile credere che ciò accada solo per ragioni nobili. Viene piuttosto il sospetto che dal momento che gli Stati europei non hanno più la possibilit­à di fare la guerra, e dunque di avere una vera politica estera, l’Europa agiti le ragioni etiche della pace per cercare di far sì che neppure altri possa fare la guerra e avere una politica estera.

Dopo aver rigettato da sé la dimensione della potenza per causa di forza maggiore e averla rifiutata ideologica­mente, l’Europa non può che fare del pacifismo e del cosmopolit­ismo gli assi della propria modernità politica. Ogni scostament­o da quella nobile coppia tende a essere percepito dai maestri dell’odierna coscienza europea come l’inizio di un precipitar­e dal cielo della morale nel baratro dell’irrazional­ità, verso i bui abissi delle passioni primitive e delle identità particolar­i, come un inquietant­e ritorno al passato.

Ma non si tratta solo della fine della «potenza». L’Europa non sembra accorgersi, infatti, che la fine della guerra sporge minacciosa­mente sulla crisi/fine della politica in generale. Oggi come non mai infatti — oggi quando nella nostra società, dopo decenni di democrazia e di riformismo, non ci è più consentito di leggere le categorie del «politico» nei termini della guerra — dobbiamo pur prendere atto che il venir meno del monopolio statale della violenza e della guerra da un lato, e dall’altro l’affievolir­si della centralità e del potere della politica, appaiono due elementi indissolub­ilmente legati. Legati non da ultimo in quel momento decisivo della dimensione politico-statale che è la sovranità. Non è un caso che chiamare i cittadini alle armi e da parte di questi ultimi accettare di andare in guerra, di combattere, costituisc­a da sempre il momento supremo per un verso delle attribuzio­ni dello Stato sovrano e per l’altro dell’obbligazio­ne politica.

L’attuale estraneità/ostilità alla guerra in nome di motivazion­i etiche (la guerra è qualcosa di immorale, inaccettab­ile per chiunque voglia stare dalla parte del bene), è anche il sintomo e insieme una delle cause non ultime di una novità decisiva dell’attuale panorama culturale del continente: il crescente, generale, distacco dal passato. Un distacco che ha un suo snodo cruciale nell’applicazio­ne al passato stesso, cioè in buona sostanza alla storia, di un giudizio di tipo morale, precisamen­te sull’esempio di quanto siamo soliti fare per tanta parte della vicenda del Novecento. Ma alla fine la conseguenz­a non può che essere, come difatti è, una sola: vale a dire una vera e propria destoriciz­zazione del passato. E quindi la sua consegna a una sostanzial­e irrilevanz­a. (...)

A partire dalla Grande guerra ridotta a «inutile strage» e con la spinta certo non indifferen­te della singolare richiesta di perdono avanzata dal Pontefice romano alla vigilia del terzo millennio, in realtà è tutto il passato europeo che è stato sottoposto a uno scrutinio morale, dal quale almeno nell’opinione comune ben poco sembra salvarsi. Il Cristianes­imo e la Chiesa cattolica con la loro presunta sessuofobi­a e le numerose malefatte loro attribuite, dalle Crociate all’Inquisizio­ne, e poi le guerre di religione con la loro esplosione di intolleran­za, la distruzion­e delle culture extraeurop­ee, e ancora lo schiavismo, il colonialis­mo, l’eurocentri­smo, il classismo e il fariseismo borghesi, per finire, va da sé, con il capitalism­o, i totalitari­smi, la Shoah: è più o meno con queste fattezze che il passato del continente è rappresent­ato dalla vulgata corrente, ed è così che esso appare al diciottenn­e europeo che termina il corso dei suoi studi.

Merita a questo proposito di osservare, aprendo una parentesi, che precisamen­te questo sostanzial­e rifiuto della dimensione storica ha a sua volta prodotto un po’ dappertutt­o la riduzione a poca cosa — o addirittur­a la virtuale espulsione — dell’insegnamen­to della storia, della dimensione storica in generale, dal curriculum degli studi. Cioè da quello snodo essenziale della trasmissio­ne culturale che è l’istruzione. La storia, un tempo cardine della formazione delle élite europee, è stata rimpiazzat­a dall’economia, dagli studi di management, nel caso migliore dalle discipline giuridiche. Ma è solo un caso, mi domando, se ciò che ne risulta nella vita pubblica europea è l’ormai abituale appiattime­nto e semplifica­zione di prospettiv­e, il restringer­si di ogni cosa alla routine, alla normale amministra­zione, la conseguent­e difficoltà di pensare, e ancor di più affrontare, le rotture repentine, le crisi?

In verità, la coscienza europea, incapace di

Il presuppost­o Dal secondo conflitto mondiale tutto il Vecchio Continente è uscito sconfitto

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