Corriere della Sera

«No al rock senz’anima» Red Hot Chili Peppers: «Troppe band schiave dei soldi La musica deve sempre evolversi, si salvano i Radiohead»

- Stefano Montefiori DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE

L’intervista Il bassista Flea e l’album «The Getaway»: un nuovo inizio

PARIGI Difficile non voler bene a Michael Balzary detto «Flea», 53enne molto tatuato che oltre a essere uno dei più grandi bassisti viventi convinse John Frusciante a rientrare nella band per il capolavoro Californic­ation (1999), e adesso si danna per tenere ancora in piedi i Red Hot Chili Peppers.

A cinque anni di distanza dal non memorabile I’m With You esce The Getaway, un nuovo, grande album. In una camera del lussuoso George V di Parigi, Flea — t-shirt attillata sui muscoli, dente d’argento e modi gentilissi­mi — non sembra molto diverso da quello che picchiava sul basso, per la prima volta sul palco con i Peppers, nel 1983.

La musica però è diversa. Vi si riconosce dopo i primi 5 secondi del primo pezzo, eppure i Red Hot Chili Peppers sono cambiati, è così?

«Diciamo che questo potrebbe essere un nuovo inizio. L’energia però rimane, io seguo sempre la musica con il mio corpo, se comincio a far ruotare la testa vuol dire che sto suonando qualcosa di buono perché vado in una specie di trance ipnotica. È una cosa che non posso fingere».

Sbaglio o nel nuovo album c’è più spazio per la malinconia? Per esempio in « The Longest Wave» o in «Dark Necessitie­s»?

«C’è sempre tristezza nella musica, è inevitabil­e. Poi di recente sono stato molto triste perché ho rotto con la mia compagna. Ma grazie a questa tristezza le cose belle mi sembrano ancora più belle. Si è più sensibili, si sentono le cose in modo molto profondo. Come gruppo ci siamo messi in una posizione meno confortevo­le, siamo più vulnerabil­i e questo a mio parere è servito. Ha molto a che fare con l’avere scelto nuovi collaborat­ori. Nigel Godrich per mixare e un altro produttore, Brian Burton (Danger Mouse, ndr), che ci ha suggerito un diverso modo di registrare». Avete scritto le canzoni in studio?

«Ne avevamo già composte molte ma Brian ci ha chiesto di scriverne di nuove in studio. Io ero molto scettico, mi sono detto che se nella prima settimana non veniva fuori grande musica era meglio mollare subito e tornare a Rick (Rubin, il produttore storico, ndr). Invece è andata bene dal primo giorno. Suonavo il piano, poi Brian diceva “Josh (Klinghoffe­r, ndr), prova ad aggiungere la chitarra”, poi “Flea, il basso”, insomma abbiamo creato canzoni per livelli successivi, in studio. Mai fatto prima».

Che cosa rende unica la vostra musica? La combinazio­ne di atteggiame­nto punk e virtuosism­o tecnico?

«Non so dirlo, non ho idea di quale sia la chiave. Ma è vero che sono cresciuto col jazz, suonando la tromba, e ammiro i grandi virtuosi come Miles Davis e Dizzy Gillespie, e poi musicisti strepitosi come Jimi Hendrix o quelli del prog rock. Ma a un certo punto mi sono appassiona­to al punk rock, adoravo questa band california­na, Il tatuaggio «Ero davvero scosso quando Bowie è morto. Mi sono tatuato il nome sul braccio» i Germs, avevano una tale energia, mi sembravano eccezional­i come John Coltrane o Charlie Parker. Un grande appetito per la vita. Mi piace l’intensità, ballare, amare, cercare di creare amore attraverso la musica, imparare». Sta ancora imparando?

«Ci provo, ogni giorno. Ho solo scalfito la superficie di che cosa vuol dire essere un grande musicista. E ascolto un sacco di cose diverse». Che cosa, di recente?

«Arthur Russel, grandi canzoni un po’ folk. Kendrick Lamar. E poi il vecchio trombettis­ta jazz Booker Little. Quando ho incontrato David Bowie, per riuscire a vincere l’emozione mi sono buttato a parlare di jazz, e ci siamo trovati d’accordo su Booker Little. Sono un così grande fan di Bowie...». ...che si è tatuato il nome sul braccio.

«Sì, quando Bowie è scomparso ero piuttosto scosso».

Avete cominciato con Nirvana e Pearl Jam. Siete dei sopravviss­uti?

«I Nirvana sono stati i più grandi degli anni ‘90, lo pensavo prima che Kurt morisse, dopo e anche adesso. Noi ci siamo ancora e lo facciamo sul serio, creiamo musica nuova, non reunion per i soldi. A sentire certe band invece pensi che il rock sia morto».

Lo si dice da tanto che il rock è morto, che cosa significa?

« Ci sono immense rock band come i Radiohead, per esempio. Ma il rock muore quando è senz’anima, quando passa alla radio una canzone e pensi “questa l’ho sentita ten million fucking times”, e la facevano meglio negli anni 90, negli 80, nei 70, nei 60 e persino nei dannati 50. La nostalgia non funziona, la musica è rivoluzion­e: sputare sopra quello che è stato fatto fino a quel momento».

@Stef_Montefiori

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