Sul voto non pesano economia e numeri
La posizione del Regno Unito all’interno dell’Unione è già singolare, frutto di continui e spesso tesi negoziati. La possibile uscita riguarda tutti, e richiederà iniziative immediate, pragmatiche e lungimiranti
Ilvero nodo della Brexit è politico ed emotivo. Come si è visto, drammaticamente emotivo. Tanto da spingere a uccidere.
Tensione Il dibattito è acceso, funestato dall’assassinio di ieri e accompagnato da un effluvio di dati sui vantaggi e gli svantaggi
In Europa, aleggia lo spettro della cosiddetta Brexit: il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea, a seguito del referendum del 23 giugno? Il dibattito è acceso, funestato dall’assassinio di ieri e accompagnato da un effluvio di dati e considerazioni su vantaggi e svantaggi del Remain (restare nell’Ue) ovvero del Leave (lasciare l’Ue). Al netto della folle tragedia e della propaganda, non sono analisi semplici. Per comprendere meglio, ritrovando la lucidità, penso si debba partire da due elementi. Il primo è il Trattato Ue: che consente a un Paese di recedere unilateralmente dall’Unione. Dunque, è un evento possibile, per nulla comparabile alla secessione da uno Stato. Chi ama precedenti e analogie, ricorderà che nel 1985, uscì la Groenlandia, entrata con la Danimarca, al cui regno è legata; inoltre, per ben due volte (1972 e 1994), la Norvegia ha deciso, con referendum, di restare fuori, malgrado il suo governo avesse firmato per accedere. Il secondo elemento riguarda la posizione peculiare del Regno Unito nell’Ue: non aderisce all’unione monetaria (quindi, né all’euro, né alle sue regole); mantiene i controlli sulle persone che arrivano dai Paesi dell’Unione ( dunque, non è nel sistema Schengen); gode di un ingente sconto ( British rebate) sul contributo che, ogni Stato dell’Unione versa al bilancio Ue, in proporzione al suo prodotto interno lordo; è esentato dalla completa applicazione della Carta dei diritti fondamentali Ue; fruisce di varie deroghe con riguardo alle politiche comuni della giustizia e degli affari interni.
Insomma, una posizione singolare, dovuta a continui, attenti, spesso tesi negoziati nelle sedi europee e sancita da esplicite disposizioni giuridiche, chiamate — con pudicizia gergale — «opt-out». Fra i 28 Paesi dell’Unione, non è l’unico ad averne ottenuti, ma gli altri ne hanno molti di meno. Anzi, proprio il caso britannico dimostra come l’Europa a «più velocità» (cioè, a differenti livelli di integrazione) già esista da decenni. Inoltre, non dimentichiamo che, per facilitare la scelta di restare nell’Ue, il governo Cameron ha ottenuto, lo scorso febbraio, il riconoscimento della natura non vincolante del solenne intento di costruire «un’Unione sempre più stretta». Nella medesima occasione, si sono concordate ulteriori varianti alle regole base che permetteranno, ad esempio, di opporsi a nuove leggi Ue in nome della «sussidiarietà» a favore degli Stati e di graduare i benefici del welfare ai lavoratori provenienti da altri Paesi dell’Unione. A ben vedere, dunque, il Regno Unito aderisce appieno, essenzialmente, alla parte più antica del sistema Ue: mercato interno unico europeo (con le politiche che lo accompagnano, come l’agricola, l’ambientale, la regionale), unione doganale e politica commerciale comune verso il resto del mondo. Contribuisce, altresì, al bilancio Ue — sebbene paghi meno, grazie allo sconto ad hoc — e prende parte alla politica estera e di sicurezza comune. In quest’ultimo comparto e negli altri dove l’Unione delibera all’unanimità, centellina sapientemente il suo consenso, sulla base dei propri interessi, non di rado impedendo le decisioni; come fa, per esempio, in materia fiscale e sociale.
Osservata da questa prospettiva, la Brexit si ridimensiona, perché il Regno Unito è già fuori da molti — rilevanti — campi d’azione dell’Unione e si è sempre opposto a formule più federative. Visti gli ambiti ai quali ora partecipa, viene da dire che se votasse per il Leave, ma poi, aderisse allo «Spazio economico europeo» (See), gli effetti economici sarebbero molto meno intensi di quel che si tende a paventare. Il Trattato See, del 1992, unisce l’Ue ai Paesi Efta (Associazione europea di libero scambio, fondata nel 1960): sancisce la libera circolazione di merci, servizi, capitali e lavoratori; recepisce oltre l’80% dell’intera legislazione Ue; ma non ha significativi capitoli di spesa, né una politica commerciale comune. Quest’ultima farebbe la differenza, ma il Regno Unito potrebbe firmare ex novo tutti gli accordi nei quali, ora, è coinvolto tramite l’Ue. Per l’economia, l’opzione See, sarebbe costruttiva sia per i britannici, sia per chi rimane nell’Unione. Rispetto alle «più velocità» poco visibili dell’odierna Europa, offre in maniera trasparente, un minore ma importante, livello di integrazione. Tuttavia, proprio questa possibile soluzione ci fa capire che il vero nodo della Brexit è politico ed emotivo; purtroppo, come abbiamo visto ieri, drammaticamente emotivo, tanto da spingere a uccidere. Lo è nel Regno Unito, dove, oltre a porsi una scelta storica e ideale, è in atto una dura lotta di potere, con implicazioni identitarie e sull’integrità nazionale, qualora la Scozia volesse restare nell’Ue. Lo è per l’Unione europea che vive con ansia il referendum, come un esame che può promuoverla o bocciarla, e congettura ostracismi per disinnescare un effetto domino. Lo è per quei leader dei Paesi europei che, messi in soffitta i doveri di leale cooperazione, amano criticare l’Ue, darle colpe che gravano su di loro, forzarne le regole, contribuendo a demolirla. Lo è per il sogno europeista, fiaccato dalle sirene nazionaliste, che tanti suggeriscono di circoscrivere a ipotesi di un’Europa più piccola, ma ancora tutta da definire, nella sostanza, nei membri, nell’effettiva realizzabilità. La questione è politica e ci riguarda, perché il referendum Brexit, quale che ne sia l’esito, richiederà iniziative innovatrici immediate: auguriamoci che siano pragmatiche e lungimiranti.