La lite con il maestro di violino
he cosa s’intende comunemente per canzone della vita? Quella che ha funzionato, e resta nel nostro ricordo, come colonna sonora di un momento, un incontro, un’emozione indimenticabili. Oppure, dal punto di vista di chi scrive musica, qualcosa di così potente da stravolgere una carriera. Prendiamo per esempio Pino Donaggio, musicista, cantante, veneziano doc: nel 1965 (aveva 23 anni) arriva al festival di Sanremo con Io che non vivo (senza te), canzone (musica sua, parole di Vito Pallavicini) che pur piazzandosi soltanto settima piace subito a tutti. Seguiranno squillanti soddisfazioni pecuniarie (80 milioni di dischi venduti), multiversioni linguistiche, anche in coreano, e insieme una popolarità che contribuirà ad aprirgli la strada per una seconda e più prolifica vita musicale: compositore di colonne sonore (quasi 230) per cinema e tv. Ecco perché anche oggi, nel suo studio veneziano (un misto fra sala registrazione e varia memorabilia) con vista sul Canal Grande, non mancano tracce della canzone e del Festival 1965. «A Sanremo avevo esordito molto bene nel ’61 con Come sinfonia, nel ’63 sono arrivato terzo con Giovane giovane, ma con Io che non vivo è stata tutta un’altra musica. Un po’ per l’immediato impatto sul pubblico ma soprattutto perché se n’era innamorata Dusty Springfield che poi l’ha incisa con il titolo You don’t have to say you love me. Prima lei, poi Elvis Presley hanno trasformato quel pezzo in un successo mondiale. Buffa la vita: avevo cominciato a fare il cantante imitando Elvis e ho avuto la soddisfazione di vedere a Graceland, la sua casamuseo, il disco d’oro guadagnato con la mia canzone!».
Ricordi dell’Italia-cantante anni ’60? Il primo è per Litte Tony, che a Donaggio, padre di due figli e nonno di tre nipoti, ha fatto da testimone alle nozze con Rita, sposata giusto 50 anni fa dunque a pieno diritto sulle note di Io che non vivo (senza te). Poi per Mina «un’interprete grandiosa», Adriano Celentano con cui divideva la sala di registrazione e poi Albano, Tony Renis. Speciale postilla per Sergio Endrigo. «Persona seria, molto per bene. Faceva il portiere all’Hotel Danieli e di sera cantava con l’orchestra di mio padre nei locali della provincia veneta. Anch’io ho esordito in quelle serate a 16-17 anni come cantante solista. Se ho avuto un maestro? No, soltanto l’esperienza da ragazzino nella corale della Fenice in opere come Carmen e Mefistofele. Lì ho capito d’essere intonato».
Senz’altro più impegnativa la formazione strumentale del giovane Donaggio: violinista diplomato nei conservatori di Venezia e Milano, virtuose esperienze con i Solisti Veneti di Claudio Scimone e con il gruppo di Claudio Abbado. Peccato che quel talento da primo violino distratto dalle canzoni non sia stato però ben accolto nelle severe sale concertistiche. «Sentivo che la mia dimensione più leggera, coltivata in giro con mio padre poi componendo qualche canzone, era ancora viva. Così quando s’è presentata l’occasione di Sanremo ho detto al mio maestro Luigi Ferro, che avevo seguito da Venezia a Milano, giusto per dire quanto amassi il violino e l’alta musica, che mi assentavo per una settimana. Sono tornato dopo un mese e Ferro non mi ha più voluto parlare: soltanto dopo 20 anni, tramite sua moglie, ci