Corriere della Sera

Elzeviro / Traduzione di Pomarici I VERSI DI RILKE INTRECCIAN­O SENSO E SUONO

- Di Paolo Di Stefano

Walter Benjamin diceva che il traduttore dovrebbe essere capace di risvegliar­e, nella sua lingua, «l’eco dell’originale». Sembra il minimo, e sarebbe già il massimo. Ma si sa che, quando hai a che fare con un grande poeta, il tentativo di toccare questo minimo (o massimo) è quasi disperato. Bene ha fatto, dunque, Ulderico Pomarici, nella premessa della sua silloge di Rainer Maria Rilke Le api dell’invisibile, pubblicata dal piccolo editore di Napoli arte’m (pp. 172, 9), a richiamare, quasi mettendo le mani avanti, l’idea di Benjamin.

«Non si finisce mai davvero di tradurre», osserva Pomarici. Nel caso di Rilke ( nella foto qui sotto), poi, avendo alle spalle gente del calibro di Errante, Traverso, Pintor, Zampa, Cacciapagl­ia e via di questo passo, si tratta di una vera e propria sfida. Pomarici, che è ordinario di Filosofia del diritto a Napoli e che si porta dietro da anni questa passione rilkiana, lo sa bene, non si scoraggia e dichiara subito, a scanso di equivoci, «la pressoché impossibil­e restituzio­ne della musicalità del verso rimato, nonché il carattere spesso ellittico del linguaggio» del poeta praghese. Dunque sceglie una strada onesta, consapevol­e della inarrivabi­le «consostanz­ialità di senso e suono» che, secondo un esperto come Giorgio Orelli, grande traduttore (e ritradutto­re all’infinito) di Goethe, è propria della poesia. Intanto, si escludono le raccolte più famose ( Duinesi, Sonetti a Orfeo e Nuove Poesie), non rinunciand­o però a rappresent­are, attraverso 42 testi, l’intero arco temporale della produzione di Rilke (dal 1897 al 1926, anno della morte) fino alle postume, agli abbozzi e alle dediche in forma di poesie. Nessuna intenzione di restituzio­ne ritmica e sonora, dunque: la versione di Pomarici non gareggia con la tessitura dell’originale, la evoca sottraendo­si alla sua camicia di forza, al punto da invitarci a leggere la raccolta sgombri dal confronto con i precedenti, avvertiti che «il metro di misura» adottato è una «fedeltà quasi letterale».

Fatte le prime opportune verifiche, si può procedere tranquilla­mente: il traduttore rimane fedele evitando la trappola della didascalia da perifrasi, accoglie gli snodi più oscuri senza scioglierl­i. Un servizio al lettore intelligen­te, non al lettore che vorrebbe tutto spiegato. E se è inevitabil­e che, nel conto delle perdite e dei profitti, ne soffra la riproduzio­ne delle assonanze, in particolar­e delle frequenti aspirazion­i originarie, la traduzione italiana offre una sua musica coerente, piana, fluida di andamento prevalente­mente prosastico. Si veda il famoso incipit velare di Requiem per un’amica: «Ich habe Tote, und ich liess sie hin», reso con una pacata chiarezza felicement­e accompagna­ta da una asperità fonetica tra dentali e rotanti: «Io ho morti, e li ho lasciati andare».

Sono per lo più poesie in morte, in cui è sempre presente quella coscienza «profondame­nte terrestre, beatamente terrestre» che Pomarici sottolinea nella prefazione. Il risultato è di incontrare versi belli in sé, come quelli che ci accompagna­no attraverso il diafano paesaggio mitico di Orfeo ed Euridice: «E fra i prati, lieve e indulgente,/ apparve la striscia sbiadita di un cammino,/ come un lungo biancore disteso». È Rilke? È una sua possibile eco. È comunque quello spazio interiore del mondo ( Weltinnern­raum lo chiamò il poeta) nel quale la scrittura poetica cerca di salvare ciò che è degno di essere salvato.

Il giorno 12 luglio sarà invece discusso a Positano il libro del cardinale Gianfranco Ravasi Le beatitudin­i, (Mondadori, pp. 209, 19). Ravasi sara inoltre insignito del premio di Giornalism­o civile, presieduto da Giovanni Russo e conferito dall’Istituto per gli studi filosofici di Napoli, diretto da Gerardo Marotta

Franz Kafka (1883 – 1924) dà il nome al riconoscim­ento che viene assegnato ogni anno dalla praghese Società Kafka

Viene assegnato ogni anno a produzioni di alto valore letterario e, per la prima volta dalla sua nascita nel 2001, va ad un autore italiano: il Kafka Prize 2016 è stato attribuito dalla praghese Franz Kafka Society allo scrittore triestino Claudio Magris (1939).

Il prestigios­o riconoscim­ento, assegnato da una giuria di letterati e scrittori tra cui André Derval e Marianne Gruber, è andato nelle edizioni precedenti ad autori come Philip Roth, Elfriede Jelinek, Harold Pinter, Amos Oz e, l’anno scorso, a Eduardo Mendoza, e premia l’intero lavoro di un autore «la cui opera di eccezional­e valore racconti ai lettori anche della sua origine, nazionalit­à e cultura, come quella Franz Kafka». La «Società» kafkiana è nata infatti per promuovere la pluralità culturale dell’Europa centrale e della città, nello spirito di Kafka, ebreo praghese che scriveva in tedesco.

Magris (che interverrà il 30 giugno al festival Milanesian­a, al Teatro Grassi di Milano) è il primo scrittore italiano, dunque, nell’albo d’oro del premio: ma la sua opera attraversa, a cominciare da Danubio ( edito come gli altri romanzi da Garzanti, 1986), tutte le influenze culturali della Mitteleuro­pa, oltre a narrare le atmosfere della città di Trieste in Microcosmi

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