Corriere della Sera

Alla rassegna «Mare, sole e cultura» di Positano il saggio del procurator­e antimafia Roberti Appello alla libertà di non mentire contro i propagator­i della paura

- Di Giulio Giorello

apevamo perfettame­nte che i nostri porti nel Mediterran­eo sono un obiettivo sensibile» per il passaggio attraverso l’Italia dei cosiddetti foreign fighters: combattent­i della pretesa guerra santa in Medio Oriente o in Africa. Così Franco Roberti, procurator­e nazionale antimafia, nel suo Il contrario della paura (scritto in collaboraz­ione con Giuliano Foschini, Mondadori). Quello che secoli fa gli abitanti di Roma e dintorni chiamavano il «nostro mare» appare come luogo di illegalità e violenza.

Con grande efficacia Roberti delinea le possibili connession­i tra terrorismo e criminalit­à: e non ci sono soltanto gli aspetti che potremmo definire «tecnici», come lo scambio di informazio­ni e di armi, ma affinità più profonde come una incessante produzione di paura, che per potersi imporre talora «non ha nemmeno bisogno di sparare». Tutto questo sembra gettare una macchia su quella triade «Mare, sole e cultura» che dovrebbe farci pensare al Mediterran­eo, se non come a un dono di Dio, almeno come a una occasione di crescita civile.

Per la XXIV edizione degli incontri di Positano mi è tornato in mente che nei secoli si è scritto che i mari sono «inclassifi­cabili»; non appartengo­no quasi mai a un solo Paese, non possono facilmente venir racchiusi in uno stesso confine, e talvolta non fanno nemmeno parte di un unico oceano. Hanno visto le imprese di pirati, guerrieri, commercian­ti, esplorator­i; ma hanno fornito anche la connession­e tra differenti nazioni, tradizioni, civiltà. Dunque, non regge nel corso dei secoli la pretesa di considerar­e «nostro» il mare che ci bagna; ma se non è «nostro», non vogliamo nemmeno che sia «loro», cioè di quelli che fanno del terrore lo strumento principale per spezzare il legame che chiamiamo cultura. Bambini a una manifestaz­ione in ricordo di Falcone e Borsellino nel 1993

In alcune pagine Roberti tratta di quella «strana patologia della psiche» detta «sindrome di Grimilde»: ricordate la strega della favola di Biancaneve? Manda in frantumi lo specchio per non dover guardare il ritratto della sua decadenza. Ne sono vittime non solo gli individui che non si piacciono, ma, dice Roberti, «anche le istituzion­i». Chiunque si rifiuta di guardare in faccia il pericolo paga «il vero prezzo della tangente» — la perdita della «faccia», per dir così. Ma non temere è resistere: contro il nazifascis­mo nel 1945, contro la criminalit­à organizzat­a nell’Italia di oggi.

Il terrorismo internazio­nale ha una ulteriore caratteris­tica. Se il mafioso o il camorrista possono rappresent­are una risposta «là dove lo Stato non c’è», gli adepti delle guerre sante e delle loro varianti pretendono di combattere in nome di tutti i «dannati della Terra». Di fatto rendono costoro ancor più «dannati», ostaggi della loro

prevaricaz­ione. E l’obiettivo unificante dei più svariati attacchi è l’odio contro la libertà che l’Occidente ha costruito con fatica, e talvolta con disperazio­ne e sangue. La libertà di Giordano Bruno e di Galileo Galilei, ma anche di Locke, di Spinoza o di Voltaire: quella della scienza e anche quella dell’Illuminism­o che spesso intellettu­ali della nostra stessa società sono così pronti a disprezzar­e. Sindrome di Grimilde all’inverso!

Roberti cita Albert Camus: «L’unica libertà per la quale sono disposto a battermi è quella di non mentire mai». Ciò non significa la dittatura della Verità che ciascun fondamenta­lista ritiene di possedere e di dover Terrorismo e cosche presentano profonde affinità e possono entrare in sinergia imporre agli altri, ma la scelta delle verità che ci rendono socialment­e affidabili. Mi rendo conto che il punto è delicato. Nel Mediterran­eo, sotto il caldo sole che mette in fuga le tempeste, si è scoperto che il Dio dei monoteismi, unico Signore del bene e del male, ha almeno tre volti: quello severo della Legge ebraica, quello gioioso dell’amore cristiano e quello clemente e misericord­ioso dell’Islam. Non tre diverse divinità; ma un Dio solo, la cui straordina­ria potenza ha modellato più di una rivelazion­e. Grande dovrebbe essere l’impegno di qualsiasi sacerdote di questa o quella religione nel liberare tale Dio dalla schiavitù a cui gli intolleran­ti vorrebbero piegarlo.

Terrorismo e mafia, sottolinea Roberti, possono essere sconfitti, e aggiunge: «Volete combatterl­i? Costruite palestre a Casal di Principe, a Palermo, a Bari, nelle periferie di Roma o di Milano». Lo ammiro persino io, che sono un pessimo sportivo: l’emergenza criminale è una spia di emergenza sociale. Alla quale si risponde rinnovando Stato e istituzion­i, senza mai cadere nella trappola dell’odio.

Di muri ce ne sono stati così tanti nella nostra Europa (e alcuni ve ne sono ancora) che affidarsi a risposte brutali è insieme una colpa morale e un errore conoscitiv­o: basti pensare che, al contrario dei migranti, a torto incolpati, quei foreign fighters di cui si parlava all’inizio sono nella stragrande maggioranz­a «cittadini europei», che sfruttano le nostre stesse libertà. Alle quali, però, non vogliamo rinunciare: altrimenti avremmo già perso.

Ai tre volti del Dio unico mi piace associare la riflession­e di Gianfranco Ravasi ( Le beatitudin­i, Mondadori) che ci dice che quella che ci offre il Vangelo è la beatitudin­e «dell’avversità». Il tratto di Gesù che possiamo amare di più — cristiani e non cristiani, credenti e liberi pensatori — è la sua capacità di resistere incessante­mente a «crimine, violenza, prevaricaz­ione».

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