Corriere della Sera

La crisi di identità dei grandi partiti Usa

- Di Massimo Gaggi

Questo 2016 segnato in tutto l’Occidente dalla crescita di movimenti e leader populisti e da allarmanti successi dei nuovi partiti xenofobi, negli Stati Uniti è stato esaminato soprattutt­o dal punto di vista del fenomeno Trump e della crisi del partito repubblica­no: un fronte politico che, a partire dall’emergere dei Tea Party, sei anni fa, ha gradualmen­te perso dirigenti di peso e identità, fino a rischiare di essere spazzato via dal suo stesso candidato alla Casa Bianca. Il miliardari­o si è, infatti, presentato agli elettori sotto le bandiere del «Grand Old Party» ma, dal rifiuto del free trade agli atteggiame­nti razzisti e all’ostilità verso i musulmani, dimostra di non condivider­e i cardini ideologici essenziali della forza politica alla quale, pure, appartiene: preannunci­o della fine del partito repubblica­no, almeno nella forma finora conosciuta, in caso di elezione di Trump. Ma nemmeno i democratic­i, che si consolano vedendo la casa dei loro concorrent­i in fiamme, hanno molto di che gioire. E non solo perché non sono riusciti a produrre una credibile alternativ­a al candidato della «famiglia reale» dei Clinton. Il fenomeno Sanders che, partito da consensi inferiori al 3%, è arrivato a mettere in dubbio la nomination dell’ex Segretario di Stato, non sembra essere solo la propaggine di un radicalism­o populista che si sta diffondend­o a destra come a sinistra. L’ala progressis­ta, denunciano analisti, politologi e storici come Thomas Frank e Steve Fraser che hanno appena pubblicato, rispettiva­mente «Listen, liberal» e «The Limousine Liberal», si è persa tra le «vacche sacre» delle grandi università liberal delle due coste e gli interessi dei ceti profession­ali e managerial­i progressis­ti. Così ha smarrito per strada la sua matrice popolare, l’attenzione per i ceti più svantaggia­ti. Il confronto repubblica­nidemocrat­ici in questo modo è diventato la sfida tra il capitalism­o conservato­re delle grandi famiglie e dei grandi gruppi abituati ad ottenere protezione dallo Stato e a sfruttare situazioni di oligopolio, e quello più moderno dei manager e degli imprendito­ri della Silicon Valley. Che, però, con lo spostament­o di ricchezza verso le imprese dell’economia digitale, accentua le sperequazi­oni nella distribuzi­one del reddito e illude i suoi referenti politici che un riequilibr­io possa avvenire con la filantropi­a e la nuova economia del crowdsourc­ing e dei servizi on demand.

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