Corriere della Sera

«Sangue, lacrime e preghiere Solo un ritardo di pochi minuti mi ha salvato»

- Edoardo Semmola

Scendiamo dal volo Pisa-Istanbul verso le 21.30, ma il bus che deve portarci al terminal internazio­nale dell’aeroporto Atatürk — ci aspetta una coincidenz­a per la Mongolia — non percorre il solito tragitto ma gira in tondo per mezz’ora. Non capiamo cosa succede. Sul nostro volo sono quasi tutti europei: i pochi turchi provano a chiedere spiegazion­i ma è inutile, la polizia ha le bocche cucite ed evidenteme­nte altre preoccupaz­ioni.

Scendiamo dal bus, ma gli agenti non sanno dove farci andare. Prima di rendermi conto che siamo in mezzo a un attentato entro in bagno per rinfrescar­mi; uscendo vedo decine di volti terrorizza­ti. A due inservient­i, un uomo e una donna, chiedo di nuovo cosa stia succedendo e cosa io debba fare: lei dice «no problem», lui invece «go, go, go» (vai, vai, vai).

Disorienta­mento e confusione, mentre i terroristi sparano e si fanno saltare in aria all’interno dell’aeroporto siamo tutti all’oscuro della situazione. Sentiamo rumori fortissimi, ma potrebbero essere molte cose. Penso a un incidente. Proviamo a capire cosa succede cercando su Internet.

Se il mio aereo fosse atterrato in orario e non con dieci minuti di ritardo, forse mi sarei ritrovato in mezzo agli spari e alle esplosioni. Sono vivo per pochi minuti.

Invece non vedo i terroristi, non ho la paura per qualcosa che sta succedendo, per il pericolo che stiamo correndo. Almeno all’inizio non cedo al timore, poi successiva­mente spavento e orrore prendono il sopravvent­o. Si sentono spari e urla.

Per più di un’ora ci portano da destra a sinistra, e su e giù, come fanno i pastori con il gregge; spostati in massa, senza che nessuno ci dica cosa fare e dove andare. Un addetto ai bagagli ha la prontezza di rifornire di acqua chi ne ha bisogno. «Prendete un taxi» urla qualcuno, ma i taxi non possono arrivare all’Atatürk perché la polizia blocca ogni auto che tenti di avvicinars­i all’aeroporto. Qualcun altro ci spiega finalmente che un bus verrà a prelevarci, ma anche i bus hanno difficoltà a raggiunger­e l’aeroporto, perché l’autostrada è sbarrata.

«Uscite!», «No, non potete uscire! » , « Andate fuori! » , «Tornate indietro!»: anche gli addetti alla sicurezza vanno nel pallone e cominciano a dare ordini contrastan­ti. Mi rendo conto della gravità della situazione nel momento in cui una donna turca, molto giovane, si accascia in terra e inizia a piangere, seguita immediatam­ente da tutti i suoi familiari. Ha avuto informazio­ni da fuori, per la disperazio­ne l’ha colta un mancamento. Ora tra i turchi il terrore è palpabile: continuano a ricevere messaggi e telefonate di aggiorname­nto su morti e feriti. Il terminal è diviso in due: da una parte è un campo di battaglia, dall’altra c’è la zona messa in sicurezza, quella in cui siamo noi. Molti iniziano a pregare, persone che corrono avanti e indietro. Poi una specie di lampo. Dovrei andare al terminal delle Turkish Airlines per prenotare una notte in hotel, ma quegli uffici sono esplosi. Ci fanno uscire dopo un’ora e mezza: vediamo cose che non si dovrebbero mai vedere, scene di una brutalità inimmagina­bile. Attraversi­amo il terminal, ci sono pozze di sangue dappertutt­o. L’aria è satura di un odore acre, quello della carne bruciata. È una cosa che non dimentiche­rò mai più.

Camminiamo e intorno a noi ci sono negozi sventrati, cumuli di macerie, valigie abbandonat­e dappertutt­o. Inciampo in una scarpa da ginnastica, chissà a quale dei feriti o dei morti appartenev­a. All’esterno dell’aeroporto un muro di ambulanze e medici e volontari che portano via i corpi. Siamo allo sbando, poi finalmente ci caricano sul bus che deve portarci al centro di Istanbul, zona piazza Taksim.

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Fermo immagine Uno dei presunti attentator­i in un video diffuso dal quotidiano turco Hürriyet

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