«Grave l’attacco ai Nebrodi, ma la mafia stragista non torna»
Lo storico Salvatore Lupo: in Sicilia la lotta alla criminalità è stata più forte che in qualsiasi altro luogo
«La lotta dello Stato contro la mafia in Sicilia negli ultimi 25-30 anni è stata molto più forte che in ogni altra regione del Sud, con esiti importanti. Quindi non credo che il tentativo di un attentato grave (sventato dalla bravura di un poliziotto) come quello rivolto alla persona del presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, possa invertire questo trend. Il contesto storico è profondamente diverso rispetto a quello stragista dei corleonesi. Sia chiaro, questo non vuol dire abbassare la soglia dell’attenzione, ma cercare di capire con razionalità quali fenomeni specifici sono in atto».
Così lo storico Salvatore Lupo (ricordiamo fra i suoi libri, Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni e il più recente La Questione, entrambi editi da Donzelli) delinea la sua chiave interpretativa degli eventi nei Nebrodi.
Cos’è la mafia dei Nebrodi? Vi sono similitudini con le ‘ndrine calabresi?
«Non mi addentro in parallelismi sui quali non ho la competenza tecnica, da storico posso dire che la presenza di complessi sistemi affaristici per quello che riguarda il controllo di terreni demaniali rimanda a problemi antichi della formazione della realtà fondiaria e a conflitti tipici di scala secolare nella società siciliana. Qui parliamo di grandi boschi demaniali, pubblici, che sono stati usurpati da interessi privati, non si voleva che venissero introdotti criteri più trasparenti per la concessione di questi terreni con l’esclusione di gruppi affaristici legati a organizzazioni malavitose».
Partendo dal ruolo svolto con serietà e coraggio dal presidente del parco dei Nebrodi e considerate le polemiche contro l’antimafia, non si rischia di gettare «il bambino con l’acqua sporca»?
«Certo, il rischio c’è. E vanno fatte le dovute distinzioni. Partiamo però da una premessa: una democrazia non ha bisogno di eroi ma di gente che compia il proprio dovere. L’antimafia è uno scenario dall’accesso troppo semplice. Serve spirito critico».
Esiste un criterio di demarcazione fra la vera antimafia e quella falsa?
«Non esiste e non può esistere un criterio di demarcazione oggettivo, perché nessuno può dare la patente di antimafia».
Il 10 gennaio del 1987 apparve sul «Corriere della Sera» un articolo di Leonardo Sciascia: « I professionisti dell’antimafia». Come valuta quell’analisi?
«Sciascia nella fattispecie aveva torto, perché se la prese, sbagliando, con Borsellino e perché sosteneva un’affermazione generale che non mi trova consenziente, ovvero che qualsiasi politica fatta in nome dell’antimafia abbia in sé il germe del totalitarismo. Però in prospettiva ha avuto ragione, ha prefigurato delle strumentalizzazioni, ha individuato da grande intellettuale delle gravi contraddizioni che si sono verificate. L’analisi di Sciascia si è rivelata più adeguata ai nostri tempi che ai suoi».
L’analisi di Sciascia sull’antimafia? Si è rivelata più adeguata ai nostri tempi che ai suoi