Un nome e una tomba per quelle vite perdute
Eppure, vista distrattamente, da lontano, in fotografia, può sembrare una barchetta giocattolo, di quelle che se affondano è perché si rovesciano dentro un secchiello. Ma il peggio sarebbe lasciarsi distrarre, guardare superficialmente, da lontano, perché quella che abbiamo sotto gli occhi è l’opposto, è una nave-bara, è la tomba di 700 persone naufragate più di un anno fa e rimaste lì dentro, in quella bara di metallo, ammassate, morte, schiacciate l’una all’altra, l’una sull’altra. Bisogna avvicinare lo sguardo, concentrarsi. E pensare che cosa può essere un cimitero subacqueo (non il «cimitero marino» dei poeti, con «l’anima esposta ai fuochi del solstizio»), una bara con dentro 700 corpi a 375 metri di profondità. Bisogna fare uno sforzo, abituarsi ad avvicinare lo sguardo con esattezza, a pensare precisamente all’interno, a immaginare se fosse toccato a noi, se lì dentro ci fossero un figlio nostro, una madre nostra… Concentrarsi sulla morte per disperazione e per mare, e lasciar lavorare insieme l’empatia e l’immaginazione, immaginare che cosa avranno mai visto i piccoli pesci luccicanti che nel breve filmato della Marina si vedono nuotare lì intorno, entrare e uscire dal relitto. Pensare che il meglio che possono avere, quegli esseri umani, più di un anno dopo, è il doppio recupero: quello dei corpi e quello dei nomi, se mai fossero ricostruibili dal Dna. Un nuovo battesimo e una sepoltura, un battesimo con una sepoltura. Un mondo insensato è quello in cui il battesimo non si celebra alla nascita ma, se va bene, molto dopo la fine.