Corriere della Sera

Un nome e una tomba per quelle vite perdute

- Di Paolo Di Stefano

Eppure, vista distrattam­ente, da lontano, in fotografia, può sembrare una barchetta giocattolo, di quelle che se affondano è perché si rovesciano dentro un secchiello. Ma il peggio sarebbe lasciarsi distrarre, guardare superficia­lmente, da lontano, perché quella che abbiamo sotto gli occhi è l’opposto, è una nave-bara, è la tomba di 700 persone naufragate più di un anno fa e rimaste lì dentro, in quella bara di metallo, ammassate, morte, schiacciat­e l’una all’altra, l’una sull’altra. Bisogna avvicinare lo sguardo, concentrar­si. E pensare che cosa può essere un cimitero subacqueo (non il «cimitero marino» dei poeti, con «l’anima esposta ai fuochi del solstizio»), una bara con dentro 700 corpi a 375 metri di profondità. Bisogna fare uno sforzo, abituarsi ad avvicinare lo sguardo con esattezza, a pensare precisamen­te all’interno, a immaginare se fosse toccato a noi, se lì dentro ci fossero un figlio nostro, una madre nostra… Concentrar­si sulla morte per disperazio­ne e per mare, e lasciar lavorare insieme l’empatia e l’immaginazi­one, immaginare che cosa avranno mai visto i piccoli pesci luccicanti che nel breve filmato della Marina si vedono nuotare lì intorno, entrare e uscire dal relitto. Pensare che il meglio che possono avere, quegli esseri umani, più di un anno dopo, è il doppio recupero: quello dei corpi e quello dei nomi, se mai fossero ricostruib­ili dal Dna. Un nuovo battesimo e una sepoltura, un battesimo con una sepoltura. Un mondo insensato è quello in cui il battesimo non si celebra alla nascita ma, se va bene, molto dopo la fine.

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