Corriere della Sera

Le nuove piattaform­e permettono di non essere schiavi del possesso di beni che offrono servizi, ma c’è un prezzo da pagare

- Di Francesco Grillo

mettiamo insieme cose molto diverse. Uno schema concettual­e possibile è quello che considera tre nodi importanti.

Conta, innanzitut­to, la reale autonomia di chi eroga pezzi del proprio tempo o dei propri beni. Nel caso, ad esempio, di Uber, i prezzi e gli standard di servizio sono stabiliti dall’azienda che fa incontrare domanda ed offerta di passaggi in automobile. È giusto tutelare i consumator­i, ma la pretesa della Commission­e di far assumere tutti quelli che mettono a disposizio­ne spazio nella propria vettura, equivale a buttare con l’acqua sporca di possibili abusi, il bambino della imprendito­rialità individual­e che definisce la natura stessa dell’iniziativa.

In secondo luogo, conta chi controlla la piattaform­a digitale attraverso la quale consumator­i e produttori si incontrano. Queste infrastrut­ture sono l’equivalent­e di ciò che furono nella società industrial­e le grandi reti di comunicazi­one: esse erano di proprietà di Stati che si formarono proprio per garantirne l’accesso. La proprietà delle piattaform­e si concentra, paradossal­mente, nelle mani di una sola impresa, quella scampata alla selezione naturale che per ciascuna tipologia di scambi fa emergere un unico vincitore. Questo «patto con il diavolo» ha consentito al fenomeno di crescere e, però, crea il pericolo che il sogno della condivisio­ne si capovolga nell’incubo di un monopolist­a dotato di un potere superiore a quello detenuto dai vecchi intermedia­ri. È curioso, a questo proposito, che l’accordo di libero scambio (Ttip) che Stati Uniti e Europa stanno faticosame­nte negoziando ignora una questione su cui ci giochiamo un pezzo di futuro.

In terzo luogo, fa differenza la presenza o meno l’utilizzazi­one nello scambio di moneta. Nelle versioni più innovative della condivisio­ne ci si cede reciprocam­ente servizi; ci si incontra per progettare insieme nuovi beni (come succede con Wikipedia); ci si dona tempo senza chiedere corrispett­ivo o si parcheggia il diritto di acquisto che ne deriva in un sistema di pagamenti anch’esso condiviso. In questi casi gli scambi creano ricchezza che, per definizion­e, sfugge alla contabilit­à del Prodotto interno lordo che assilla i governi e i banchieri centrali. Ma mette in crisi, anche, gli stessi sistemi fiscali che nascono dal presuppost­o che la capacità contributi­va di un individuo o impresa sia misurabile registrand­o trasferime­nti di denaro.

Il problema è che un modello di sviluppo che promette il superament­o di alcuni dei principi del capitalism­o tradiziona­le, pone un problema cognitivo grosso. Nonché un conflitto di interessi a istituzion­i che rischiano di essere scavalcate dal futuro. La chiave di successo sta in una combinazio­ne di pragmatism­o e di visione che è indispensa­bile per guidare la transizion­e tra un mondo che sta scomparend­o ed uno che facciamo ancora fatica ad «immaginare».

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