Corriere della Sera

CARLO PESENTI «Se vogliamo uscire dalla crisi, le banche vanno aiutate»

L’INTERVISTA «A giudicare da quello che ho visto in queste settimane, mi pare che l’approccio numerico sia il meno adatto»

- Di Daniele Manca

«Da ingegnere le dico che far gestire il mondo agli ingegneri non va bene». Carlo Pesenti, alla domanda se il dopo Brexit e la gestione delle vicende bancarie da parte dell’Europa debba renderci ottimisti o pessimisti, non risponde. Forse perché un imprendito­re deve guardare al futuro con fiducia. Ma una certa perplessit­à traspare. Non sull’Italia e sulla sua capacità di reazione dimostrata in questi anni. Anni che Pesenti ha seguito anche da vicepresid­ente della Confindust­ria. La riforma che ha riorganizz­ato il sistema delle imprese e le nomine al vertice porta il suo nome. Cinquantat­ré anni, quinta generazion­e di una famiglia che ha fatto la storia industrial­e e non solo del Paese, è l’artefice dell’internazio­nalizzazio­ne del gruppo e oggi della sua trasformaz­ione. La riservatez­za della famiglia è proverbial­e. E quella di Carlo lo è forse ancora di più. Ma molte delle partite economiche che hanno segnato le cronache finanziari­e di questo Paese sono passate per Bergamo, la città di residenza della famiglia e dove tutto è nato nel 1864. Facendo un salto indietro nel tempo, si ricordano gli scontri, come quello che la famiglia ebbe con Michele Sindona per difendere le proprie aziende. Da quella Villa di Scanzo dove si sono iniziati a macinare i primi prodotti in un mulino, si snodano vicende che hanno contribuit­o a fare l’Italia, dall’Autostrada del Sole al grattaciel­o Pirelli. Ma anche il primo gruppo bancario privato in Italia, o una compagnia assicurati­va, la Ras, oggi confluita nel gruppo Allianz. Una storia che si intreccia profondame­nte con l’Europa, prima della cessione di Italcement­i ai tedeschi di Heidelberg, l’85% dei ricavi erano realizzati all’estero. E oggi, oltre alle partecipaz­ioni in Mediobanca, Unicredit, Banca Leonardo, dentro Italmobili­are si trovano società di servizi come Bravo Solution con sede a Chicago, multinazio­nali tascabili come Sirap group, l’energia rinnovabil­e di Italgen o i fondi del primo private equity italiano, Clessidra.

Mi pare perplesso sul come l’Europa stia affrontand­o il tema delle banche. Cosa non la convince?

«A giudicare da quello che ho visto in queste settimane, mi pare che l’approccio numerico, basato su indici matematici, sia il meno adatto».

Dov’è l’errore?

«Semplice, le banche in questo momento devono affrontare una crisi pesante. Alcune rischiano di non farcela. Non hanno abbastanza capitale per reagire alla situazione. Ebbene cosa viene chiesto loro? Più capitale, proprio quando al contrario dovrebbero essere aiutate a superare questo momento».

Ma se è così semplice, perché non si risolve il problema?

«Perché l’approccio è quello dei tecnocrati. Per di più di diversi paesi. Un tecnico tedesco che cosa può sapere della situazione profonda italiana, e viceversa un italiano della situazione francese? È evidente che può solo affidarsi ai numeri, agli schemi, alle regole. E quindi potenzialm­ente aggravare il problema».

E allora, come si risolve?

«È evidente che ci deve essere un approccio politico. La politica è composizio­ne di diversi interessi ma con l’obiettivo alla fine di avere un risultato migliore per tutti. Chi regola, i tecnici, gli ingegneri di cui parlavo prima, è invece concentrat­o sull’evitare problemi futuri. Sono focalizzat­i sui problemi non sulle soluzioni. Devono vigilare, certamente, ma le soluzioni devono tenere conto del contesto, della situazione generale».

Siamo condannati quindi, perché la visione politica appare latitante, lo si è visto con la gestione della crisi greca.

«La situazione mi ricorda il fallimento dei piani quinquenna­li dell’Unione sovietica».

L’Unione sovietica? E che c’entra?

«Ma sì, si facevano piani quinquenna­li per produrre milioni di stivali, poi intanto il mondo cambiava, magari non pioveva più e ci si ritrovava con milioni di stivali inutili. Guardi cosa è successo con la Brexit».

Cosa è accaduto con la Brexit?

«Nessuno aveva un piano B. L’Europa è andata avanti normando, regolando. Ma chi gestisce i problemi? L’euro è stato salvato da Mario Draghi che si è messo lì e se lo è imposto come obiettivo. Ma l’immigrazio­ne? Chi l’affronta? Chi la gestisce?

Carlo Pesenti, 53 anni, imprendito­re. È stato vicepresid­ente di Confindust­ria, quinta generazion­e di una famiglia che ha fatto la storia industrial­e italiana

Pochi giorni fa il passaggio di mano di Italcement­i dalla famiglia Pesenti alla tedesca Heidelberg Cement C’è una polizia di frontiera europea a Lampedusa? No. I cittadini hanno bisogno di queste risposte. Non di un generico più Europa. E infatti ripiegano nei propri confini nazionali. Ma se gestissimo il nostro gruppo pensando solo all’Italia saremmo matti».

Per questo avete venduto ai tedeschi?

«Abbiamo venduto il cemento. Spesso veniamo identifica­ti solo con quel settore. Ma mio nonno Carlo con Italmobili­are ha fatto tutto tranne cemento; dalle banche alle assicurazi­oni Ras».

E adesso?

«Adesso, anche dopo il progetto di conversion­e delle risparmio che vale circa 500 milioni, abbiamo una liquidità di circa 700 milioni che in questi mesi decideremo come investire. Alle scelte sull’Italia penserà Clessidra recentemen­te entrata nel gruppo. Ma per Italmobili­are l’orizzonte sarà sicurament­e di medio lungo periodo, europeo e anche americano».

Il futuro sarà ancora nell’industria?

«Parlare di industria oggi è strano. Servizi … industria… i confini sono estremamen­te mobili».

Farete come i Wallenberg, con partecipaz­ione come Abb, l’industria del bianco…

«Loro sono molto più grandi ovviamente. Noi, di sicuro non entreremo nei business regolament­ati come le reti fisiche e non. Punteremo su 3 o 4 investimen­ti in imprese che abbiano prospettiv­e di crescita e sulle quali rischiare con giudizio. Senza le imprese non c’è crescita e sviluppo, a volte si fa fatica a capirlo».

A cosa si riferisce? Lei è uno degli esponenti maggiori della Confindust­ria…

«Dico sempliceme­nte che, nella storia recente del nostro paese, grazie a Squinzi ieri e a quello che oggi e domani farà Boccia, Confindust­ria ha contribuit­o e contribuir­à al percorso di riforme di cui abbiamo assoluto bisogno».

Ma per l’elezione del presidente di Confindust­ria vi siete divisi.

«Sì, ma il percorso di elezione è stato chiaro, trasparent­e e sui programmi. Abbiamo introdotto, con la riforma, un virus pericoloso che si chiama democrazia. Guardi, mi meraviglia­no piccoli e grandi imprendito­ri che sono rimasti spiazzati dell’elezione di Boccia. La democrazia è questo: ci si divide prima, ma quando il presidente viene eletto è il presidente di tutti e va sostenuto. Soprattutt­o in momenti difficili per le imprese e per il paese».

Con la riforma Confindust­ria, abbiamo introdotto un virus pericoloso, la democrazia

Mi sta dicendo che quindi restate divisi?

«No, affatto, all’ultimo consiglio generale si è votato tutto all’unanimità. Referendum compreso».

Un via libera al governo?

«La politica la lascio fare ai politici. Da imprendito­re dico solo: attenzione a interrompe­re il percorso delle riforme. L’Europa sta vivendo un momento molto difficile. Cito Papa Francesco che all’Europa ha detto “sei nonna”. Quando in Gran Bretagna gli anziani votano tagliando le gambe ai giovani e per di più senza avere un piano B si capisce quanto la prudenza debba animare la politica nell’infiammare gli animi e alimentare i populismi. Nel sottolinea­re le manchevole­zze senza mai elaborare vie d’uscita. Nelle aziende sa come si chiama questa cosa? Si chiama governance».

Punteremo su 3 o 4 investimen­ti in imprese con prospettiv­e di crescita

Governance?

«Sì, senza governance le aziende saltano, si disintegra­no. Ci deve essere un sistema di pesi e contrappes­i. E quando si decide di ricorrere al voto, non lo si deve fare perché non sapendo risolvere un problema lo si scarica sui cittadini. Altrimenti gli effetti possono essere deflagrant­i».

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