Ancora guerra
Il Sud Sudan è ripiombato nell’incubo che ha segnato 5 anni d’indipendenza. Scontri e vittime a Juba. Bloccati anche 126 italiani
Casse vuote, arsenali pieni. Non avevano soldi per celebrare i 5 anni di indipendenza, ma per riprendere la guerra sì: governativi e ribelli sono tornati a combattere ieri nelle strade di Juba. Carri armati, elicotteri, razzi. Al fondo, l’insanabile rivalità tra il clan del presidente Salva Kiir e quello del suo vice Rieck Machar. La stessa rivalità che aveva innescato il conflitto nel luglio 2013. Dopo appena due anni di pace, il Sud Sudan se n’è fatti altri due di sangue, fino alla pace finta dell’agosto 2015: un Paese devastato da un veleno che ha contagiato 11 milioni di abitanti dividendoli per etnia, la maggioranza Dinka e la minoranza Nuer.
Anziché spegnere i contrasti, i due supposti pacificatori ci hanno soffiato sopra. Risultato: decine di migliaia di morti, 3 milioni di sfollati, 4 milioni di denutriti. Il Paese più giovane del mondo, la guerra più vecchia. Ad appoggiare Machar, il governo di Khartoum, quel Sudan da cui il Sud si era staccato dopo decenni di un conflitto che doveva terminare con il festoso referendum popolare del gennaio 2011. A sostenere Kiir, il vicino Uganda. Dopo undici armistizi sfumati, l’estate scorsa i leader regionali (Addis Abeba e Nairobi in testa) avevano quasi imposto ai contendenti la firma di un accordo. Un guscio di pace. Sulla carta più favorevole Machar, che si vedeva proiettato alla presidenza dopo le elezioni 2018. Gli insoddisfatti nel fronte governativo sono forse gli stessi che hanno sfruttato la scontro a un checkpoint (5 soldati uccisi) del palazzo presidenziale per scatenare una rappresaglia su vasta scala, mentre all’interno Kiir e Machar invitavano goffamente alla calma.
Dopo la battaglia di venerdì, la calma di sabato 9 luglio, quinto anniversario dell’indipendenza, che il governo aveva deciso di non celebrare a causa della mancanza di fondi per i festeggiamenti. Dall’austerity alla guerra nel giro di poche ore: ieri gli scontri sono cominciati intorno alle 8 del mattino e si sono protratti fino a sera in diverse zone della città (anche intorno all’aeroporto, che è stato chiuso) dice al Corriere Morrish Ojok, dell’ong italiana Amref. La gente ha cercato rifugio nelle case e nel campo di rifugiati accanto alla base dell’Onu. Che però non è stato risparmiato: granate Rpg hanno centrato le tende degli sfollati ferendo almeno 8 persone (5 bambini e due donne). «Situazione molto grave», ha detto all’agenzia Ap Budbud Chol, responsabile del presidio sanitario alla base. Il bilancio provvisorio di questa domenica di sangue parla di 150 morti, che si aggiungono ai 150 di venerdì. Ci sono vittime tra i civili, 50-60 secondo alcune stime. Ha un bel tranquillizzare il ministro dell’Informazione Michael Lueth: «Tutto sotto controllo». Davvero? Il Sud Sudan «is back to war» proclama il portavoce di Machar alla Bbc. Il ritorno alla guerra era nell’aria. Il guscio di pace è rimasto pressoché vuoto. Machar è rientrato a Juba soltanto alla fine di aprile di quest’anno. Le forze a lui fedeli erano dislocate nelle zone di Gudele e Jebel, dove ieri si sono concentrati gli attacchi del fronte opposto. I duri del governo — più che il presidente con il cappello da cowboy — volevano liberarsi del capo ribelle con l’occhio malato. Ma hanno mancato l’obiettivo. Machar sarebbe fuggito dalla capitale. Per riorganizzare le sue milizie. Il conflitto potrebbe riaccendersi nelle province. Difficile fare molto affidamento sulle leve della diplomazia. Gli Stati Uniti, grandi sponsor dell’indipendenza del Sud Sudan, sembrano impotenti alla finestra.
Alla finestra anche centinaia di volontari e operatori umanitari delle ong. Solo a Juba 126 italiani, secondo la lista della nostra ambasciata di Addis Abeba. La Farnesina li invita al rientro. Si aspetta. L’aeroporto è chiuso. Simone Manfredi, 30 anni, in Sud Sudan dal 2015 con Avsi: «Siamo chiusi nel compound con i colleghi di Ovci». Sei italiani, quattro suore, un centinaio tra collaboratori locali e famiglie. Simone si occupa di istruzione. Scuole da ricostruire, formazione. Le scuole a Juba sono chiuse da venerdì. «Gira voce che le parti in lotta passino già di casa in casa per arruolare ragazzi». Simone ci manda questa cartolina-déjà vu dal Paese più giovane del mondo. «Ragazzi che vanno a scuola la mattina, e al pomeriggio si combattono».