«Cose nostre», le storie esemplari di chi si oppone alla ‘ndrangheta
Dopo qualche intervista a contadini si capisce subito che qui la reticenza non è solo una forma di paura o di «rispetto». È qualcosa di più antropologico, di inestirpabile. Siamo nell’Aspromonte, dove la ‘ndrangheta da secoli ha il controllo totale del territorio. Eppure.
Eppure ci sono uomini e donne che hanno scelto di rompere a caro prezzo questo patto scellerato e le loro storie diventano esemplari. Un’esemplarità che costringe i protagonisti e la loro famiglia a una limitazione della libertà, costretti come sono a una vita sotto scorta. «Cose nostre» di Emilia Brandi ha raccontato le vicende di Viviana Balletta, Antonino De Masi, Gaetano Saffioti e Antonino Bartuccio: quattro storie poco note che hanno finalmente avuto la ribalta di Rai1 (venerdì, ore 21,28). Mi ha molto colpito la storia di Viviana Balletta, vedova di Fortunato De Rosa, oculista di Canolo ucciso nel 2005 con tre colpi di fucile perché aveva chiuso il passaggio del suo campo alle mandrie della ‘ndrangheta (le cosiddette «vacche sacre») che per una legge non scritta possono pascolare libere in ogni proprietà. Il dottore era benvoluto da tutti, spesso curava gratis i pazienti, ma appena si accenna alle cause della sua morte anche i beneficati si chiudono nel più omertoso dei silenzi. Oggi Viviana vive ancora lì, decisa a non cedere all’arroganza dei prepotenti.
Antonino De Masi, imprenditore di Gioia Tauro, lavora nell’area portuale nonostante abbia subito minacce e attentati, fra cui 44 colpi di kalashnikov esplosi sul suo capannone. Gaetano Saffiotti, imprenditore edile di Palmi vive sotto scorta da 15 anni. Antonino Bartuccio, ex sindaco di Rizziconi (i consiglieri si sono tutti dimessi) aveva denunciato le ingerenze delle cosche nell’amministrazione del paese. Anche lui sotto scorta.
In alcuni frangenti, «Cose nostre» pare un po’ troppo istituzionale, ma ce ne fossero programmi come questi. E non solo in piena estate.