Il rocciatore solitario che frugava le pareti a caccia di nuove vie «Questo è un gioco, non uno scherzo»
Perché? La domanda è probabilmente destinata a restare senza risposta. Forse non sapremo mai cosa è davvero accaduto sulla parete nord del Monte Camicia, ma una volta tanto le cronache della montagna non si trovano a fare i conti con l’ennesimo incidente causata da imprudenza e impreparazione. Perché, oltre che una cordata affiatata e sperimentata, Roberto Iannili e Luca D’Andrea erano due alpinisti di lungo corso.
Il teatro dell’incidente, la parete del Camicia, non avrebbe potuto essere più caro a Iannilli, uno dei migliori scalatori dell’ambiente romano, che su quella temibile lavagna di oltre mille metri già nel 1999 aveva aperto un’altra via. La parete è nota come l’«Eiger dell’Appennino», chiamando in causa la tragica parete dell’Oberland Bernese, dove si sono consumate alcune delle più epiche tragedie alpine, soprattutto negli anni tra le due guerre, quando la gioventù tedesca si immolava per il trionfo anche alpinistico della razza ariana. «La nord del Camicia — aveva scritto IL LUOGO LA TECNICA Iannilli sul sito PlanetMountain, commentando l’apertura di una nuova via, denominata “Inferno con vista” — non è l’inferno, non è neanche un orco, ma solo una parete alta, grande e su roccia pericolosa, ma è vero che scalarla è una cosa epica, pregna di avventura in un ambiente incredibilmente affascinante, orribilmente affascinante».
Iannilli, classe 1954, è caduto lì, sulla sua parete, cercando di aprire l’ultima delle centinaia di vie che ha firmato sulle Alpi e fuori. Il suo è sempre stato un alpinismo di ricerca. Non gli bastava ripetere le grandi ascensioni della storia dell’alpinismo. Aveva bisogno di ricercare nuove linee, andando a frugare gli angoli di montagne rimasti ancora vergini a causa della loro difficoltà o della pericolosità della roccia. Il Gran Sasso, del quale il Monte Camicia fa parte, era il suo terreno di gioco elettivo, come lo sono le Grigne per gli arrampicatori lombardi. Solo lì aveva aperto oltre cento vie, arrampicando spesso in solitaria, ricercando un confronto con la parete che doveva essere «by fair means», come avrebbe detto lo scalatore inglese Frederick Mummery, che si fermò sul Dente del Gigante per non usare mezzi artificiali. Iannilli arrampicava a mani nude e spezzo scherzava su quella mani graffiate e callose, non certo da architetto, anche se questa era la sua professione. Si era cimentato anche con le montagne extra-europee, dall’Himalaya indiano alle Ande, ma non era andato a mettersi in fila sulle normali degli ottomila. Aveva preferito imprese estreme su cime inesplorate, raggiunte con spedizioni leggere, che gli erano valse prestigiosi riconoscimenti internazionali.
Lo ricorderemo per questo suo alpinismo appartato, remoto dal clamore, dove lo scalatore sa che deve misurarsi soprattutto con se stesso. Iannilli pubblicò un libro, che nel sottotitolo riportava una frase in cui c’era tutto lui: «L’alpinismo, un gioco, non uno scherzo». Ne conosceva bene le regole e le accettava. Se ne è andato così, fedele fino alla fine al meraviglioso gioco della sua vita.