GESTI CORAGGIOSI DEI MUSULMANI PER SCONFIGGERE IL TERRORISMO
Gentile Sumaya Abdel Qader, lo scorso 5 luglio, su suo invito, ho partecipato alla cerimonia di chiusura del mese del Ramadan all’Arena di Milano. Con me c’erano don Giampiero Alberti, in rappresentanza dell’Arcivescovo di Milano, la vicesindaco Anna Scavuzzo, e il giornalista Gad Lerner. In quella circostanza lei, appena eletta consigliere comunale di quella città, ha pronunciato parole di netta condanna del terrorismo islamista e di incondizionata solidarietà per le vittime dell’attentato di Dacca. E allora, all’indomani della strage di Nizza, già questo potrebbe indurla a domandarsi: «Perché mai, ancora una volta, tornare sul tema dello jihadismo, quasi dovessi scontare periodicamente la colpa di un’appartenenza religiosa e dare costanti prove di lealtà?
Come se io e chi professa la mia stessa fede dovessimo vivere in una condizione di perenne sospetto e quotidianamente smentirla, assumendo sempre l’onere della prova». In qualche modo, e dolorosamente, è proprio così. E questo, come ha scritto in ultimo Vittorio Emanuele Parsi «non perché i musulmani debbano fornire una “prova speciale” della loro fedeltà ma perché solo grazie al loro aiuto potremo, prima o poi, sconfiggere il mostro del terrorismo islamista». Insomma, a prescindere dalle convinzioni e dalle intenzioni di ciascuno di noi, penso anch’io che si debba offrire e chiedere di più ai musulmani che vivono in Italia. È duro, ovviamente, può apparire pretestuoso e, per certi versi, addirittura offensivo per tanti che professano sinceramente la fede musulmana, pienamente integrati e rispettosi dello stato di diritto: ma ci troviamo in una condizione d’eccezione, che pretende scelte (in questo caso politiche) altrettanto eccezionali. Se, dunque, è comprensibile la reazione di chi si chiede perché mai debba prendere le distanze dall’attentatore di Nizza («cosa mai ho in comune con lui perché me ne debba distinguere?»), ciò nonostante quella dichiarazione di totale estraneità si rivela necessaria. Quell’unico tratto di affinità — l’adesione alla medesima confessione religiosa — è diventato un fattore dirompente e discriminante al punto da imporre a tutti di differenziarsi.
In altri termini, si tratta di riconoscere che siamo, tutti, sulla difensiva e che alcune scelte sono imposte da circostanze ostili. Come sempre è accaduto, il terrorismo limita le libertà individuali e collettive e restringe gli spazi di autonomia. Insomma, è una fase, questa, che impone grande senso di responsabilità e scelte mature, che tengano conto dei rapporti di forza e della mentalità diffusa, degli allarmi sociali e degli stereotipi dominanti. Tutto ciò richiede intelligenza e gesti anche coraggiosi. Sono certo che i musulmani italiani sapranno compierli.
Caro Senatore, ritengo che chi accusa i musulmani di non dire e di non fare abbastanza o è in cattiva fede o vive una condizione di preoccupazione/paura per cui ha bisogno di essere rassicurato. Sui primi c’è poco da aggiungere, ma sicuramente molto da lavorare. Verso chi vive in uno stato d’ansia, invece, penso che sia giusto che i musulmani continuino a ripetere, e ancora a ripetere, le loro posizioni di condanna e presa di distanza. Perché? Perché le persone esprimono un bisogno prima