Einaudi, una dinastia in bottiglia alla conquista del Barolo del presidente
Sardagna, bisnipote del secondo capo dello Stato, amplia il podere di famiglia: «Continuo i valori di Luigi: tradizione e innovazione»
sempre la domanda inevitabile: era di mia produzione? Mi seccava confessare che non lo era. Perciò comperai quattro ettari».
Aveva solo ventitré anni quando esplorò la cascina San Giacomo a Dogliani. L’edificio era in rovina, i vigneti decimati dalla fillossera. Il neo laureato in giurisprudenza diventò produttore di Dolcetto con i soldi in prestito della mamma. Piantò nuovi vigneti, innestati su piede americano per fermare la fillossera. Una tecnica allora molto innovativa che gli fece guadagnare, tra i contadini del posto, la fama di «professore pazzo». Investiva tutti i guadagni dall’università e dai giornali (era un collaboratore del Corriere della sera) in agricoltura.
Tentò di comprare anche a Cannubi, il luogo da cui partì l’epopea del Barolo: la sua offerta portata da un amico venne accettata, ma quando il venditore capì da chi arrivava, alzò il prezzo e la trattativa sfumò. Il figlio Roberto, ingegnere tra i fondatori del gruppo Techint, impedì nel 1991 che la cantina, la villa settecentesca e i vigneti precipitassero nel gorgo finanziario della casa editrice del fratello Giulio. E cinque anni dopo, con i Gancia, concluse l’affare di Cannubi, realizzando il sogno del padre. «Pagammo quei 2,5 ettari — ricorda Matteo Sardagna — tre miliardi di lire (meno della metà di adesso, perché le bottiglie in cantina valevano un miliardo). Questa è la nostra storia: per me non si tratta solo di fare il vino, ma di un serio e affettuoso sentimento di continuità con i valori di Luigi», la tradizione con la forza dell’innovazione. Da Dogliani fino a Bussia, con il Barolo disubbidiente che diventa il Barolo del presidente.
@CorriereDiVini