Corriere della Sera

Salvare la libertà col terrore Il vicolo cieco di Robespierr­e

- di Giovanni Belardelli

Fratricidi­o Il dissidio sul «bene del popolo» condusse a una lotta feroce entro il fronte repubblica­no Risulta strabordan­te il riferiment­o dell’Incorrutti­bile alla «virtù» come centro del suo progetto; invece usa con prudenza il termine «terrore»

Nessun altro protagonis­ta della Rivoluzion­e francese ha suscitato tante e opposte passioni come Maximilien Robespierr­e (1758-1794). Nessun altro ha sollecitat­o giudizi altrettant­o divaricati: difensore intransige­nte e a ogni costo dei principi rivoluzion­ari, secondo alcuni; responsabi­le, secondo altri, di aver condotto la Rivoluzion­e a sacrificar­e la libertà individual­e che pure aveva proclamato, e di avere inaugurato così la prima delle moderne dittature democratic­he. Oggi, esauritasi da tempo quella corrente storiograf­ica «giacobino-comunista» che celebrava Robespierr­e come una specie di anticipato­re di Lenin, sono i giudizi del secondo tipo, quelli decisament­e critici, a prevalere. Senza tuttavia che attorno alla figura dell’Incorrutti­bile — come

presto Robespierr­e venne appellato — cessi di aleggiare un ambiguo fascino.

È un fascino che si mescola al disagio quello che sente di provare anche Cesare Vetter nella presentazi­one del Dictionnai­re Robespierr­e, di cui è autore insieme a Marco Marin ed Elisabetta Gon (Edizioni Università di Trieste): un’opera imponente e ambiziosa, quale di rado il mondo universita­rio italiano, cronicamen­te privo di fondi, riesce a produrre, almeno nel campo delle discipline storico-politiche. Si tratta di un lavoro che cerca di oggettiviz­zare, per dir così, lo studio della figura di Robespierr­e attraverso gli strumenti della lessicomet­ria, cioè dell’analisi quantitati­va delle parole — singole o aggruppate — che vengono più di frequente utilizzate.

Il dizionario presenta, da questo punto di vista, conferme e sorprese. Tra le prime la presenza strabordan­te del riferiment­o robespierr­iano alla «virtù» come centro dell’intero progetto giacobino; tra le seconde, l’estrema prudenza con cui l’Incorrutti­bile utilizzava il termine «terrore».

Confesso di nutrire qualche dubbio sul fatto che possa essere la frequenza con cui vengono impiegate certe espression­i o parole chiave a farci capire fino in fondo eventi storici segnati da una fortissima dimensione ideologica, nei quali ogni parola è impastata di sentimenti e passioni, e spesso si lega a un orizzonte salvifico («Il regno dell’eguaglianz­a comincia», annunciava ad esempio Robespierr­e nel settembre 1792). Tuttavia, nel caso della Rivoluzion­e francese, proprio l’attenzione al lessico utilizzato si rileva particolar­mente utile, poiché consente di mettere a fuoco quella che ne fu una delle caratteris­tiche peculiari, in particolar­e durante il governo del Comitato di salute pubblica: lo scontro interno al fronte stesso dei rivoluzion­ari, risolto con la morte di chi si trovava in minoranza.

Sappiamo ormai che questa violenta lotta intestina non può essere ricondotta all’espression­e di interessi sociali differenti, come aveva creduto di fare la storiograf­ia marxista, ma chiama invece in causa il discorso rivoluzion­ario in quanto tale, il suo lessico appunto. La Rivoluzion­e aveva segnato la comparsa di un nuovo soggetto politico, il popolo; per ciò stesso aveva anche creato una competizio­ne continua tra chi parlava in suo nome. Prima ancora che i Danton, i Brissot, i Robespierr­e, protagonis­ta vero della Rivoluzion­e era — come osservò lo storico François Furet — il circuito semiotico: lo scontro politico diventava una lotta per stabilire chi rappresent­asse davvero la volontà popolare. «Da sé il popolo vuole sempre il bene, ma da sé non sempre lo vede», aveva scritto Jean-Jacques Rousseau in un passo del Contratto sociale più volte citato da Robespierr­e (e di cui spesso percepiamo un’eco anche nelle democrazie contempora­nee: si pensi a tanti commenti recenti sul voto per la Brexit). Quel passo poteva essere letto come una giustifica­zione della maggiore capacità dell’élite rivoluzion­aria, rispetto al resto della popolazion­e, di individuar­e ciò che è bene per il popolo; apriva così la strada a una lotta, entro il fronte rivoluzion­ario stesso, tra posizioni diverse, ciascuna delle quali proclamava di riflettere — essa e soltanto essa — il vero interesse e la vera volontà del popolo.

Incapaci di riconoscer­e la legittimit­à di interpreta­zioni differenti della volontà popolare, concepita una e indivisibi­le come la sovranità della Repubblica, i giacobini finivano necessaria­mente per considerar­e il dissenso politico alla stregua di una patologia. Così, per spiegarlo, non sapevano far altro che ricondurlo a motivazion­i inconfessa­bili, in primis al tradimento, che per Robespierr­e diventò presto un’autentica ossessione. Sempre più iniziò a vedere ovunque cospirazio­ni, a leggere la realtà dal punto di vista di un manicheism­o paranoico che divideva il mondo in virtuosi e corrotti.

Fu all’interno di questo universo mentale popolato di complotti che poté prendere corpo la legge del 22 pratile (10 giugno) 1794, che riformava la procedura del Tribunale rivoluzion­ario sopprimend­o le prove e la difesa, facendo subire così un’impennata al numero delle esecuzioni capitali. Proprio il complotto «percepito», scrive Vetter nell’introduzio­ne al Dictionnai­re, può aiutare a spiegare l’evoluzione dell’atteggiame­nto di Robespierr­e, che nel 1791 si era dichiarato contro la pena di morte, nei confronti della violenza e dell’impiego massiccio della ghigliotti­na.

L’analisi del lessico di Robespierr­e permette appunto di cogliere anche il differente significat­o che certe parole o espression­i vengono ad assumere nel giro di pochi anni. Inizialmen­te con «libertà pubblica» il leader giacobino intende riferirsi all’insieme delle libertà politiche e civili che possono essere minacciate dal potere. Con un’accezione dunque a cui non sono estranee implicazio­ni, in senso lato, liberali. Durante il Terrore «libertà pubblica» diventa invece sinonimo di difesa della Rivoluzion­e contro i nemici interni ed esterni in combutta tra loro (di nuovo l’ossessione del complotto).

Giustament­e Vetter osserva che Robespierr­e, come tutto il giacobinis­mo, non vorrebbe annullare l’individuo nella società. Ma è la dinamica stessa della Rivoluzion­e, una dinamica incontroll­ata e incontroll­abile per chi non riconosce alcuna legittimit­à alla differenza di opinioni e dunque al dissenso politico, che spinge inesorabil­mente a schiacciar­e la libertà individual­e.

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