Elzeviro / Rinaldo Gianola «MILANO-SERA» UN GIORNALE DI CARATTERE
Srotolando vecchi giornali di carta si può anche raccontare una fetta della vita — passata — del nostro Paese. Ci prova, e ci riesce, Rinaldo Gianola in questo suo nuovo libro: Milano-sera. Un giornale per la Repubblica 1945-1954 (Book Time, pp. 120, 13). È la storia di un quotidiano che s’intreccia con quella di una nazione che faticosamente tentava di darsi un’identità. C’erano i democristiani e c’erano i social-comunisti. All’inizio, appena sepolto il fascismo, facevano finta di andar d’accordo. Ma poi bisognava schierarsi. E il giornale del pomeriggio, Milano-sera appunto, si schierò. A sinistra. Con la retorica, l’enfasi, la partigianeria di quegli anni ma anche con la professionalità di giornalisti curiosi e di intellettuali onesti che, in qualche modo, tentavano di scalare l’impossibile vetta che portava «alla verità e alla giustizia».
Fatto sta che nei giorni dell’insurrezione di primavera del 1945 nasce Milano-sera. «Un quotidiano con pochi soldi e un grande cuore — scrive Gianola — durato nemmeno dieci anni, in un periodo di eventi straordinari per il nostro Paese. Ha accompagnato la rinascita di Milano, la conquista della Repubblica, l’affermazione e la difesa dei valori della Resistenza. È stata un’avventura coraggiosa, temeraria anche, certo troppo breve».
Gianola è nato due anni dopo la chiusura di quel giornale ma te lo racconta come se vi avesse scritto lui. Sarebbe stato in buona compagnia: «Nelle stanze di Milano-sera sono passati giornalisti, intellettuali e politici che hanno influenzato per decenni l’editoria, la cultura, la vita politica del Paese — scrive —. Un giornale davvero originale, forse troppo, dove un poeta, Alfonso Gatto, poteva inventarsi direttore con il socialista Manlio Bonfantini, uomo di lettere e di straordinaria umanità; un capo comunista, Giancarlo Pajetta, provava a fare l’editore, mentre Elio Vittorini girava in redazione, Paolo Grassi, Giorgio Strehler presentavano i loro articoli e Oreste del Buono incrociava Mario Dondero che scelse presto la fotografia. Intanto Gaetano Afeltra era impegnato a inventare titoli e a riciclare prestigiose firme compromesse con il fascismo». Afeltra è geniale: coniuga la fantasia del marinaio d’Amalfi con il pragmatismo del lavoratore lombardo. È lui che per l’edizione del 5-6 giugno 1946 scrive sul foglio di carta che manda in tipografia (stampatello compreso) il titolo che annuncia la vittoria della Repubblica: «Il popolo ha SCELTO. La STORIA ha scritto. È GIÀ REPUBBLICA». E poi, siccome gli piaceva incuriosire i lettori, lascia a fondo pagina un altro titolo sibillino e inquietante: «Cose grosse: ficchiamoci il naso».
Ma, come si diceva, questo libro non è soltanto la storia di un giornale glorioso e sfigato (sepolto dai debiti). È, soprattutto, il rendiconto delle sofferenze e delle speranze di un Paese condannato dalla Storia a pagare un prezzo per gli errori del suo passato. Ed ecco che ti passano sotto il naso le camionette della Celere di Scelba, le rivolte operaie e contadine, le illusioni del Fronte popolare, la sconfitta della sinistra (mascherata da quasi-vittoria) delle elezioni dell’aprile 1948, l’attentato a Togliatti e la vittoria di Bartali al Tour de France, le malefatte di Rina Fort, la Guerra Fredda e l’invasione nel cinematografo delle pellicole hollywoodiane, la libidine del caso Montesi, l’uccisione di Salvatore Giuliano.
E poi il suicidio del giornale: l’adesione senza se e senza ma alla politica dell’Unione Sovietica (sia ben chiaro: lo dice chi ha letto il libro, non chi lo ha scritto). Compresa la teoria che i missili nucleari americani servivano a seminare morte e invece quelli sovietici servivano a coltivare la pace.
Pensierino finale arrivati a pagina 118 del libro: Rinaldo Gianola sarebbe potuto essere un ottimo giornalista di Milano-sera. Ma per ragioni anagrafiche ha lavorato più tardi. A Il Sole 24 Ore, La Stampa, la Repubblica, l’Unità. S’è molto occupato di economia e finanza. Terreno scivoloso. Ma non è mai scivolato.
Non piangere di Lydie Salvayre è edito da L’asino d’oro (traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, pagine 240, 17 )
Lydie Salvayre è nata in Francia nel 1948, figlia di rifugiati spagnoli sfuggiti al franchismo. Ha esordito nella scrittura negli anni Settanta. Non piangere, oltre al premio Goncourt, ha ottenuto nel 2014 il premio Le Livre sur la Place. I suoi romanzi sono tradotti in venti lingue