Così il padre lo ha visto in tv e ha avvisato la polizia
Il primo a riconoscere il killer di Monaco che camminava barcollando sul tetto prima di scendere e sparare davanti al McDonald’s è stato un tassista iraniano, immigrato in Germania negli anni Novanta. Si chiama Massud Sonboly: il papà di Ali. È stato lui a precipitarsi dalla polizia e poi a riconoscere il cadavere del figlio.
Prima ancora delle forze speciali antiterrorismo, c’è stato un uomo che venerdì ha riconosciuto lo stragista e ha escluso l’Isis. Un tassista iraniano, immigrato a Monaco negli anni Novanta. Quell’uomo si chiama Massud Sonboly. Il papà di Ali. Il figlio diciottenne non era in casa e il secondogenito Daniel, di quattro anni minore, non sapeva dove fosse. La tv aveva cominciato a mandare i video. All’inizio una persona sul tetto del centro commerciale, ma le immagini non erano chiare. Poi l’esterno del McDonald’s e i fotogrammi, le vittime in fuga o colpite dal killer con l’andatura irregolare, lo zaino, l’arma impugnata dalla mano sinistra. L’andatura e lo zaino del suo ragazzo, mancino. Il signor Sonboly è uscito dal palazzo di Dachaustrasse 67 nel quartiere della media borghesia di
Hanno cominciato con alloggi popolari e sussidi. Per Massud tanti mestieri. Ha fatto il tassista. Fino ad aprire una piccola cooperativa sua
Maxvorstadt, è salito in macchina ed è andato nel più vicino ufficio di polizia: «È mio figlio». Ali, intanto, si era già sparato. Gli investigatori hanno portato il padre sul luogo del massacro. Per avere la conferma definitiva che ha coinciso con il riconoscimento del cadavere. Ma soltanto dopo tempo. Non ci si poteva avvicinare, bisognava stare a distanza di sicurezza: forse addosso aveva esplosivo. Non era ancora chiaro cosa fosse successo. Se non a Massud Sonboly, uno dei trentamila iraniani che vivono a Monaco, uomo schivo e dedito al lavoro. Avevano cominciato con alloggi popolari e sussidi, i Sonboly. Massud aveva fatto i mestieri che capitavano, raccontano dalla comunità iraniana, in Germania alla terza generazione e prossima alla quarta. Come tanti, era entrato nel circuito dei taxi. Fino ad aprirsi una piccola cooperativa tutta sua. Nell’elenco delle cooperative Massud compare verso la fine, in
La famiglia del tassista
mezzo a italiani e turchi. C’è l’indirizzo di casa. E c’è il numero di telefono. Che risponde a vuoto. È così dalle due della notte tra venerdì e sabato, quando la polizia aveva preso in custodia la famiglia per portarla in un luogo protetto. Ma soltanto mamma e Daniel. Massud aveva avuto un malore ed era stato ricoverato in ospedale. «Non erano tanti agenti e non hanno fatto rumore», dice nel cortile del palazzo un amichetto d’infanzia di Daniel. Scattante, sguardo furbissimo, dall’ottimo inglese, il ragazzino punta i passanti, li esamina e quando se li trova a fianco domanda sottovoce: «Reporter?». Invita a seguirlo, percorre venti metri per raggiungere degli scalini che danno su una vietta laterale, meno trafficata. «Guarda, è il numero di cellulare di Daniel. Lo vuoi? Dammi 120 euro». Lo sai che non si fa? E lo sai che se anche fosse gratis un minorenne non possiamo chiamarlo? «Tanto non risponde nemmeno a me. L’ho sentito sabato. Si è messo a piangere e ha attaccato. Strano, è uno forte e tranquillo. Comunque se ti serve possiamo vendere anche il numero della mamma». La mamma, commessa ai grandi magazzini, è stata ascoltata dalla polizia, invano: non riesce a parlare. Nella obbligatoria e tragica ricerca di colpevoli e colpe, gli investigatori escludono proprie responsabilità. Ali non era schedato o monitorato. Era però malato, in cura, vittima di bullismo a scuola. La polizia vuol capire le informazioni in possesso di genitori e professori, e se davvero non si poteva intervenire nell’ultimo anno, quello della lucida preparazione del massacro, tra i viaggi nelle località di stragi di studenti (Winnenden, 2009, 15 vittime) e l’acquisto di munizioni e di armi. Già, i trecento proiettili e la Glock 9mm, forse comprata su siti Internet clandestini e proveniente dalla Slovacchia, zona di rifornimento anche per l’arsenale degli attentati parigini del 2015. Ma è un’altra storia. Un ragazzo passa e ripassa sul marciapiede di Dachaustrasse. Alto, con gli occhiali, si presenta come Patrick e giura di essere un ex compagno, mostra una foto di classe e indica il killer. L’espressione di Ali, quasi d’uno obbligato a mettersi in posa, adesso appare una prova evidente.