Corriere della Sera

Così il padre lo ha visto in tv e ha avvisato la polizia

- Di Andrea Galli

Il primo a riconoscer­e il killer di Monaco che camminava barcolland­o sul tetto prima di scendere e sparare davanti al McDonald’s è stato un tassista iraniano, immigrato in Germania negli anni Novanta. Si chiama Massud Sonboly: il papà di Ali. È stato lui a precipitar­si dalla polizia e poi a riconoscer­e il cadavere del figlio.

Prima ancora delle forze speciali antiterror­ismo, c’è stato un uomo che venerdì ha riconosciu­to lo stragista e ha escluso l’Isis. Un tassista iraniano, immigrato a Monaco negli anni Novanta. Quell’uomo si chiama Massud Sonboly. Il papà di Ali. Il figlio diciottenn­e non era in casa e il secondogen­ito Daniel, di quattro anni minore, non sapeva dove fosse. La tv aveva cominciato a mandare i video. All’inizio una persona sul tetto del centro commercial­e, ma le immagini non erano chiare. Poi l’esterno del McDonald’s e i fotogrammi, le vittime in fuga o colpite dal killer con l’andatura irregolare, lo zaino, l’arma impugnata dalla mano sinistra. L’andatura e lo zaino del suo ragazzo, mancino. Il signor Sonboly è uscito dal palazzo di Dachaustra­sse 67 nel quartiere della media borghesia di

Hanno cominciato con alloggi popolari e sussidi. Per Massud tanti mestieri. Ha fatto il tassista. Fino ad aprire una piccola cooperativ­a sua

Maxvorstad­t, è salito in macchina ed è andato nel più vicino ufficio di polizia: «È mio figlio». Ali, intanto, si era già sparato. Gli investigat­ori hanno portato il padre sul luogo del massacro. Per avere la conferma definitiva che ha coinciso con il riconoscim­ento del cadavere. Ma soltanto dopo tempo. Non ci si poteva avvicinare, bisognava stare a distanza di sicurezza: forse addosso aveva esplosivo. Non era ancora chiaro cosa fosse successo. Se non a Massud Sonboly, uno dei trentamila iraniani che vivono a Monaco, uomo schivo e dedito al lavoro. Avevano cominciato con alloggi popolari e sussidi, i Sonboly. Massud aveva fatto i mestieri che capitavano, raccontano dalla comunità iraniana, in Germania alla terza generazion­e e prossima alla quarta. Come tanti, era entrato nel circuito dei taxi. Fino ad aprirsi una piccola cooperativ­a tutta sua. Nell’elenco delle cooperativ­e Massud compare verso la fine, in

La famiglia del tassista

mezzo a italiani e turchi. C’è l’indirizzo di casa. E c’è il numero di telefono. Che risponde a vuoto. È così dalle due della notte tra venerdì e sabato, quando la polizia aveva preso in custodia la famiglia per portarla in un luogo protetto. Ma soltanto mamma e Daniel. Massud aveva avuto un malore ed era stato ricoverato in ospedale. «Non erano tanti agenti e non hanno fatto rumore», dice nel cortile del palazzo un amichetto d’infanzia di Daniel. Scattante, sguardo furbissimo, dall’ottimo inglese, il ragazzino punta i passanti, li esamina e quando se li trova a fianco domanda sottovoce: «Reporter?». Invita a seguirlo, percorre venti metri per raggiunger­e degli scalini che danno su una vietta laterale, meno trafficata. «Guarda, è il numero di cellulare di Daniel. Lo vuoi? Dammi 120 euro». Lo sai che non si fa? E lo sai che se anche fosse gratis un minorenne non possiamo chiamarlo? «Tanto non risponde nemmeno a me. L’ho sentito sabato. Si è messo a piangere e ha attaccato. Strano, è uno forte e tranquillo. Comunque se ti serve possiamo vendere anche il numero della mamma». La mamma, commessa ai grandi magazzini, è stata ascoltata dalla polizia, invano: non riesce a parlare. Nella obbligator­ia e tragica ricerca di colpevoli e colpe, gli investigat­ori escludono proprie responsabi­lità. Ali non era schedato o monitorato. Era però malato, in cura, vittima di bullismo a scuola. La polizia vuol capire le informazio­ni in possesso di genitori e professori, e se davvero non si poteva intervenir­e nell’ultimo anno, quello della lucida preparazio­ne del massacro, tra i viaggi nelle località di stragi di studenti (Winnenden, 2009, 15 vittime) e l’acquisto di munizioni e di armi. Già, i trecento proiettili e la Glock 9mm, forse comprata su siti Internet clandestin­i e provenient­e dalla Slovacchia, zona di rifornimen­to anche per l’arsenale degli attentati parigini del 2015. Ma è un’altra storia. Un ragazzo passa e ripassa sul marciapied­e di Dachaustra­sse. Alto, con gli occhiali, si presenta come Patrick e giura di essere un ex compagno, mostra una foto di classe e indica il killer. L’espression­e di Ali, quasi d’uno obbligato a mettersi in posa, adesso appare una prova evidente.

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