RIFORMARE LA
COMMISSIONE
«Noi tutti sappiamo bene quello che c’è da fare per uscire dalla crisi. Non abbiamo però nessuna idea di come potremmo essere rieletti dopo averlo fatto»: fu l’attuale Presidente della Commissione Ue a suggellare, nel 2007 da ministro delle finanze del Lussemburgo, quella che per anni è stata la convinzione che ha ispirato una generazione di politici europei. L’idea era che decisioni indispensabili ma impopolari avessero bisogno di un’istituzione meno esposta alle opinioni pubbliche. Oggi, a distanza di dieci anni, quello schema è fallito. Dalla crisi non siamo mai usciti ed è sull’Europa che gli elettori «votano» spaccando gli stessi governi nazionali. Dopo essere stata per anni la custode del cambiamento, è la Commissione ad aver bisogno di una profonda riforma. Alla Commissione è assegnato il mastodontico compito di attuare le politiche dell’Unione; il budget è, però, quaranta volte inferiore alla somma della spesa pubblica nei ventotto Paesi ed un terzo della cifra è assegnata alla politica agricola comune.
La sua amministrazione conta la metà dei dipendenti del comune di Roma e molti sono impegnati a tradurre i documenti in ciascuna delle ventiquattro lingue ufficiali dell’Unione; e, tuttavia, alla Commissione vengono affidate competenze esclusive come la politica monetaria e della concorrenza, alle quali si è aggiunto — in risposta alla crisi — tra i compiti, quello di fare dell’Europa l’economia «più competitiva del mondo»; risolvere l’emergenza migranti; assicurare fonti energetiche «sicure, meno care e di basso impatto ambientale».
La malattia di cui rischiano di morire le istituzioni comunitarie ha poco a che vedere con le guerre tra federalisti e euroscettici. Il problema è più semplicemente in un eccesso
di retorica che produce aspettative alle quali non corrispondono né le risorse, né la capacità di adattarsi rapidamente a contesti nuovi.
Cinque i criteri che, senza forzare i trattati, andrebbero applicati in tempi brevi per dare efficienza all’istituzione che è il cervello dell’Unione. Innanzitutto, alla Commissione vanno affidati i problemi per i quali c’è un fallimento dello Stato Nazione che non ha la scala per affrontarli. Un esempio è la regolazione delle piattaforme digitali — tutte private ed americane — attraverso le quali passeranno gli scambi economici e di idee nei prossimi decenni.
In secondo luogo, il budget va spostato sugli strumenti che sono indispensabili per rafforzare l’Unione stessa: quelli che, ad esempio, garantiscano a tutti gli studenti il diritto a periodi di studio in un altro Paese europeo. Per cominciare la costruzione di quel «demos» europeo senza il quale è difficile un’ulteriore integrazione.
Devono, invece, diminuire il numero di politiche affidate ad una «gestione comune» laddove essa non sta producendo risultati. Vale, ad esempio, per i fondi strutturali in Italia: in mancanza di una svolta, essi andrebbero o alla Commissione o allo Stato evitando una pericolosa confusione di responsabilità e una sovrapposizione di burocrazie che rallenta gli interventi.
Sulle altre politiche nazionali, può essere, poi, assegnato volontariamente dagli Stati alla Commissione un ruolo di organizzatore di confronti, sperimentazioni, apprendimenti reciproci. Sulle politiche di ricerca si deve investire di più, garantendo, però, che ciascun progetto finanziato sia in grado di generare conoscenza condivisa.
L’organizzazione, infine. È una burocrazia la Commissione Europea; ma a poteri (e stipendi) speciali, devono corrispondere responsabilità non comuni. La carriera di un funzionario va legata a obiettivi precisi. I compiti di gestione di programmi di spesa vanno divisi da quelli di formulazione di leggi. Non ha più senso, infine, organizzare la Commissione per nazionalità: l’unico criterio deve essere quello della competenza al punto da aprire la struttura a cittadini non appartenenti agli Stati membri. Un’intera generazione di leader europei si è persa in una retorica senza risultati. Quella di chi si candida a rinnovare un progetto di cui abbiamo bisogno, dovrà dimostrare l’umiltà di porsi obiettivi ambiziosi e realistici.