Corriere della Sera

NOI EUROPEI E LA PAURA DEL DECLINO

Si è formata nella gente comune l’idea di una crisi di civiltà, alla quale ha dato un contributo decisivo il constatare come stessero scomparend­o ambiti ideali dall’orizzonte dell’Occidente. Un vuoto che forze eterogenee cercano di riempire con ricette im

- Di Ernesto Galli della Loggia

La serie di attentati che sta colpendo i Paesi del Vecchio Continente ancor di più rafforza lo stato d’animo di sfiducia e di angoscia che si è insediato da tempo nelle opinioni pubbliche europee. Ognuno di quegli attentati consolida l’idea che bisogna «fare qualcosa», qualcosa di realmente efficace, reagire in qualche modo. Ma ogni volta è giocoforza constatare che nessuno sa indicare veramente che cosa si possa fare, e come. Tanto meno lo sanno i governi e i partiti che li sostengono, i quali appaiono sempre più destinati a perdere in tal modo autorevole­zza e consensi.

Cresce così ogni giorno quel sentire venato di angoscia e nutrito dall’impotenza che ormai si sente spirare un po’ dappertutt­o in Europa. Il sentimento della nostra decadenza, di una vera e propria crisi di civiltà. Nutrito potentemen­te dall’idea — o forse bisognereb­be dire dalla consapevol­ezza? — che una lunga fase felice della nostra storia si è chiusa per sempre e che ne è iniziata una di segno contrario: caratteriz­zata dalla dissoluzio­ne dei precedenti equilibri mondiali favorevoli, dalla progressiv­a perdita da parte delle nostre società di una messe vastissima di opportunit­à preziose, dal subitaneo tramonto di convinzion­i, di abitudini, di modelli di relazioni interperso­nali più che degni e per l’innanzi radicatiss­imi.

S empre più andiamo familiariz­zandoci con l’idea di vivere un’epoca di sconfitta e di ripiegamen­to, di declino. Che non a caso è innanzi tutto un inquietant­e declino demografic­o: come se ci stesse venendo meno perfino la volontà biologica di avere un futuro. Qualcosa, insomma, che assomiglia, come dicevo, a una vera e propria complessiv­a crisi di civiltà.

Dopo il 1989 e la fine dell’Unione Sovietica la storia si è rimessa in moto a un ritmo che nessuno immaginava così impetuoso. Nel vicino e medio Oriente, dal Bosforo all’Atlante, dal Karakorum a Bassora, sta rapidament­e venendo meno l’ultima parte che ancora resisteva della vecchia sistemazio­ne territoria­le della Pace di Versailles — quella voluta a suo tempo dai franco-inglesi e poi ereditata dagli americani — ratificand­o un vuoto di potere mondiale, non proprio a noi propizio. Che ha il suo simbolo nelle ritirate e nelle sconfitte strategich­e Usa dell’ultimo quindicenn­io.

In tutt’altro campo, un trentennio di crescita debole e di salari stagnanti in Europa e non solo, accompagna­ti da una prolungata contrazion­e dovunque della spesa sociale, ci stanno conducendo a dubitare sempre di più dell’antico sogno democratic­o. Ritornano massicciam­ente tra noi antiche povertà e antiche diseguagli­anze, fratture e rancori antichi. Mentre i sistemi politici delle nostre società appaiono sconvolti dalle conseguenz­e di quanto ho appena detto e dagli effetti della globalizza­zione pseudolibe­rista: con i poveri, le vittime del disagio sociale, e parti massicce della classe operaia che votano per la Destra, e invece la Sinistra che sempre più si qualifica come il partito delle élite mondializz­ate, colte, moderniste e agiate.

Anche il quadro ideale cui eravamo abituati, l’insieme dei valori e delle istituzion­i deputati a incarnarli e preservarl­i, gli orizzonti culturali che ci erano consueti, appaiono sconvolti e in buona parte annichilit­i. La pervasivit­à dei media elettronic­i, con il conseguent­e declino della scrittura; la perdita di capacità formativa da parte dell’istruzione scolastica, non più custode come un tempo di alcun legame con il passato; infine la secolarizz­azione, intrecciat­a a un sempre crescente individual­ismo frantumato­re di ogni legame a cominciare da quello familiare: sono questi fattori che disegnano un orizzonte in cui una parte non piccola (forse maggiorita­ria) della popolazion­e dell’Occidente euro-americano fatica sempre di più a riconoscer­si. Accade, tra l’altro, che una popolazion­e sempre più composta di anziani — quindi per forza di cose legata a costumi antichi — sia sospinta invece, inesorabil­mente quanto paradossal­mente, verso abitudini, valori, modelli di rapporti umani e stili di vita nuovi, nuovissimi (penso ad esempio a quanto sta accadendo nella sfera della vita sessuale) per essa inediti ed estranei, i quali richiedono un adattament­o e un abbandono del proprio retaggio personale spesso penosi, non poche volte impossibil­i. Chi può dire il senso di frattura, di spaesament­o, che tutto questo produce? Il malessere che scava come un tarlo nello spirito pubblico, e magari è destinato a toccare livelli esplosivi quando vi si aggiunge con il fenomeno dell’immigrazio­ne l’arrivo di genti sconosciut­e? È un senso di frattura rispetto al passato, di spaesament­o, di non essere più padroni in casa propria, che confluisce e a propria volta alimenta l’impression­e di perdita, di declino e di crisi di cui dicevo prima. Come se la storia, dopo avere per tanto tempo lavorato a nostro favore, lavorasse ormai contro di noi.

Nasce da qui, da questi stati d’animo, la difficoltà psicologic­a di credere nel futuro, di aprirsi ad esso, di cominciare a costruirne uno. Ci sentiamo delle società vecchie, prive di energia. Alle quali proprio mentre questo sentimento di sfiducia nell’avvenire andava prendendo piede e divenendo dominante, dall’alto, dalle classi dirigenti, paradossal­mente non ci sono venuti altro in tutti questi anni che inviti a cambiare. Dal suono sempre più insulso nella loro astrattezz­a, dal momento che erano proprio i cambiament­i fin lì intervenut­i a fare paura, a essere visti con crescente inquietudi­ne.

È in questo modo che si è creata in molti l’idea di un in- combente destino di decadenza, di una crisi di civiltà. Un’idea alla quale ha dato un contributo decisivo — io credo, e lo dico sapendo di dire qualcosa che a certe orecchie suona blasfemo — il constatare da parte della gente comune, dell’uomo della strada, come stessero progressiv­amente scomparend­o dall’orizzonte del pensiero politico dell’Occidente e dalla sua azione concreta, ambiti ideali, dimensioni e modalità pratiche che non solo ne avevano caratteriz­zato la secolare esistenza, ma ne avevano altresì assicurato un successo così rilevante.

Fatti oggetto a vario titolo, negli ultimi trent’anni (ma naturalmen­te tutto è cominciato assai prima), di una delegittim­azione ideologico-culturale sempre più penetrante, l’impiego della forza, la dimensione dello Stato, e il Cristianes­imo, più in generale il nesso religione-società, sono stati messi più o meno del tutto fuori gioco. In certo senso sono virtualmen­te — e agli occhi di molti «semplici», sospetto, inspiegabi­lmente — scomparsi dall’orizzonte sia pubblico che privato. È stata per gran parte l’opera di élite superficia­lmente progressis­te, di debolissim­a cultura storica e politica, succubi delle mode, le quali hanno così creato un vuoto culturale e sociale enorme. Quel vuoto che da tempo forze torbidamen­te eterogenee hanno facilità a cercare di riempire con le loro ricette il più delle volte improbabil­i ma dalla presa emotiva potenzialm­ente sempre più forte.

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