Corriere della Sera

LE SFIDE DOPO LA FINE DEL

NEOLIBERIS­MO

- Di Mauro Magatti

La cornice della nostra vita sociale è ormai irrimediab­ilmente cambiata: dall’euforia della crescita illimitata siamo passati all’angoscia della recessione e della violenza. Un cambiament­o da prendere molto sul serio se, come ha scritto F. Neumann — grande studioso del nazismo — nelle moderne società di massa è proprio l’angoscia il movente principale per la formazione di regimi autoritari.

È questa l’eredità più impegnativ­a della fine del neoliberis­mo: riconsegna­rci alla necessità di affrontare il nostro futuro comune in una condizione storica radicalmen­te trasformat­a.

Come ha scritto L. Summers sul Washington Post, l’alchimia neoliberis­ta, che aveva tenuto insieme liberalism­o e democrazia, è ormai saltata. E poiché le più recenti proiezioni parlano di un «futuro giapponese» a livello planetario, dobbiamo sapere che la divaricazi­one tra gli orientamen­ti elettorali e le esigenze dei mercati è destinata solo ad aggravarsi. Di fronte a questa nuova situazione, i sistemi politici si vanno ristruttur­ando attorno a due diagnosi opposte che però convergono nel mettere in discussion­e la democrazia.

La prima posizione sostiene che per contrastar­e i diversi fronti della crisi occorre gestire ancora più tecnicamen­te la cosa pubblica. Può essere la decisione di sospendere le libertà per garantire la sicurezza nelle città. Oppure la necessità di governare i mercati finanziari. La macchina complessa della nostra società ha bisogno di esperti e istituzion­i in grado di decidere in modo efficiente. Il problema qui è il popolo, ignorante e bizzoso.

La seconda diagnosi ritiene, al contrario, che il caos in cui ci troviamo sia la conseguenz­a della usurpazion­e del potere da parte delle tecnocrazi­e. La soluzione sta allora nel tornare al popolo che si ritrova attorno alle parole di un qualche leader e ai suoi richiami al bisogno di appartenen­za. Attorno al tema della sicurezza, forse si ricostruis­ce la nazione, certo non lo Stato. E si rischia di virare verso forme di democrazia illiberale.

Ricordiamo­ci allora la lezione di Tocquevill­e: la democrazia è destinata ad andare incontro a nuovi problemi nel momento della sua vittoria. E questo perché la potenza che essa attiva dal proprio interno apre questioni che è ben lontana dal saper risolvere. Tradotto nel linguaggio della tradizione democratic­a, ciò significa che — oggi come nel passato — il «potere del popolo» — ciò che legittima la democrazia

— è un obiettivo destinato a sfuggirci dalle mani, come una chimera che sta sempre all’orizzonte.

La verità è che neoliberis­mo e globalizza­zione hanno costituito una società dipendente dal benessere e dalla crescita. Come ha scritto in questi giorni l’archistar Rem Koolhaas, «negli anni 60 abbiamo reclamato i valori dell’uguaglianz­a, della libertà, della fraternità. E poi li abbiamo cambiati in quelli del benessere, della sicurezza, della sostenibil­ità».

Tenere insieme una democrazia capace solo di parlare di diritti in un contesto economico di bassa crescita e in un quadro internazio­nale disordinat­o e carico di violenza è il problema che abbiamo davanti. Sperare di ritornare nel più breve tempo possibile a un contesto favorevole è legittimo. Ma non si può non sapere che si tratta di una speranza assai malferma.

Oppure possiamo guardare in faccia le questioni che ci accompagne­ranno nei prossimi anni cercando un antidoto all’assedio dell’angoscia e al suo potenziale distruttiv­o.

Ciò significa tornare a capire che, pur rimanendo fondamenta­li, crescita e benessere individual­e non possono più prescinder­e dal contesto (sociale, economico, istituzion­ale) circostant­e. Ma per realizzare questo salto, che è prima di tutto culturale, abbiamo bisogno di soggettivi­tà capaci di declinarsi non più solo in termini di diritti ma anche di responsabi­lità. Perché è oggi più che mai chiaro che non ci può essere libertà senza responsabi­lità, né diritti senza doveri. E questo vale per tutti i gruppi sociali (ricchi e poveri, nativi e immigrati) ma in modo particolar­e per le élite.

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